Ormai è guerra. Totale. La Nato ha deciso per l’escalation. E i suoi membri si adeguano. Non solo un quinto pacchetto di sanzioni, ma anche l’espulsione di diplomatici. Di fatto, l’anticipo di un confronto diretto senza corpi intermedi di dialogo, senza canali di mediazione diretta. Meglio prenderne atto. E al netto di tutte le valutazioni, ciò di cui dobbiamo renderci conto è di quale prezzo pagherà il nostro Paese a questa situazione. In termini economici, ovviamente.
E basta un primo dato a parlare chiaro. Anzi, chiarissimo: quasi due imprese su dieci (16,4%) hanno ridotto la produzione a seguito della crisi in Ucraina. E tra quelle che non l’hanno ancora fatto più di un terzo (il 35,9%) si dà un orizzonte di tre mesi: se non miglioreranno i problemi dei rincari energetici e delle materie prime, le difficoltà logistiche e di approvvigionamento, in estate sarà costretto a metter mano alle proprie linee.
E se è la manifattura energivora a dichiarare le maggiori difficoltà, già oggi ci sono elevati rischi di tenuta anche nell’alimentare, nella meccanica e nelle costruzioni. Ecco i risultati di un’indagine interna alla Confindustria, realizzata dal Centro studi di viale dell’Astronomia e diffusa tra le associazioni di sistema. Nelle intenzioni dell’associazione guidata da Carlo Bonimi, un grido d’allarme. In realtà, tramutatosi nell’arco di pochi giorni in un de profundis. Perché il nuovo pacchetto di sanzioni restringerà drasticamente l’arco temporale di resistenza dichiarato da quel 35,9% di imprese che tentava di restare sul mercato: sognatevi quei tre mesi, forse si parlerà di tre settimane. Perché già i settori colpiti dal nuovo bando metteranno in ginocchio molte filiere, ma le contro-sanzioni di Mosca, soprattutto in campo alimentare, faranno strage. Non a caso, l’Ue ha contestualmente indetto un meeting straordinario fra i ministri dell’Agricoltura degli Stati membri. Ecco cosa ci aspetta.
E se quel sondaggio interno di Confindustria rappresenta solo 2.000 imprese, attenzione a un particolare: la sovra-dominanza delle aziende di dimensioni medio-grandi. Ovvero, quelle che possono incidere in maniera sistemica sull’economia nazionale. E sull’occupazione. E ancora. L’aumento del costo dell’energia rappresenta il problema numero uno, indicato dal 93% del campione, ma fa paura anche quello del costo delle materie prime, tallonato a sua volta dalle vere e proprie difficoltà di approvvigionamento. L’acciaio – si legge nel documento – è la materia prima su cui si concentrano le maggiori criticità delle imprese, sia in termini di prezzi d’acquisto (52% degli interpellati), sia di difficoltà di approvvigionamento (40%); le strozzature dal lato dell’offerta colpiscono in maniera abnorme tutti i comparti della meccanica, nonché le costruzioni. Al secondo posto come input più soggetto a problemi di offerta per le imprese si trova il gas, per cui pesa soprattutto il fattore prezzo (29% degli interpellati) e non, se non marginalmente, quello dell’approvvigionamento.
Altri materiali sono poi critici per alcuni settori specifici: il rame per le apparecchiature elettriche, il nickel nelle lavorazioni meccaniche, il petrolio, il cotone, il legname grezzo o semi-lavorato, il frumento. Ambiti nei quali pesa soprattutto il rincaro dei prezzi d’acquisto. ma non è marginale il problema della scarsa reperibilità. Ed ecco che questo grafico sembra gridarci in faccia il livello di autolesionismo raggiunto dall’Europa: in un solo anno, il peso dei costi energetici in percentuale al Pil per l’eurozona è tornato ai livelli degli anni Ottanta.
E attenzione al particolare: è il doppio di quello che grava sull’economia Usa. Ancora qualche dubbio sul perché Washington voglia a tutti i costi un’Ue in versione falco verso Mosca, mentre lui acquista il greggio degli Urali a prezzo di sconto e non applica alcuna sanzione reale sui beni, limitandosi a bloccare i conti in dollari per i rimborsi obbligazionari?
Se poi quanto denunciato da Confindustria non vi bastasse, potete leggere lo studio della Caritas di Firenze, riguardo i cosiddetti intrappolati nel sistema assistenziale: uno su tre ha difficoltà crescente a pagare l’affitto. Tradotto, emergenza abitativa alle porte. E non per dei diseredati, bensì per quel residuo di ex classe media che il Covid aveva già proletarizzato del tutto e che ora rischia di precipitare nella marginalità.
Risposte del Governo a queste bombe a orologeria sociali in attesa di esplodere? Zero. Noi espelliamo i diplomatici russi per questioni legate alla sicurezza nazionale. Scusate, una situazione come quella descritta da Confindustria e Caritas non rappresenta una minaccia di tenuta democratica e sociale per il Paese, ben più seria del presunto spionaggio russo? Forse serve la fog of war, la nebbia di guerra che nasconde il vero conflitto, quello sociale che sta esplodendo nelle nostre città. Silenzioso ma rapidissimo. Serve la disinformazione H24 e il Grand Guignol emotivo delle fosse comuni, altrimenti occorrerebbe ammettere l’inammissibile: che l’Europa ci ha già messo la camicia di forza rispetto alla possibilità di fare nuovo scostamento di bilancio per finanziare misure tampone alle emergenze appena raccontate. Serve extra-gettito, altrimenti nulla.
Anzi no, si può dar vita a un bel po’ di lacrime e sangue in altri ambiti. Quelli per ora non toccati direttamente dalla crisi: forse il blitz sul catasto era finalizzato a questo? Temo che non vi rendiate conto su quale crinale si trovi il Paese. Siamo a un passo dal precipitare in recessione tecnica ufficiale, dopodiché entreremo in una fase auto-alimentante di chiusure forzate e blocchi della produzione. Tradotto, Pil a picco e disoccupazione in aumento. A cascata, impennata della povertà non percepita ma reale e impatto devastante su consumi e sul sistema bancario: nuova crescita delle sofferenze, rate del mutuo non pagate, abuso dell’utilizzo delle carte di credito e del credito al consumo.
Ecco a cosa porta la scelta di dichiarare guerra alla Russia. Occorre saperlo. Poi magari lo si riterrà un prezzo giusto da pagare, ma occorre conoscere il destino cui andiamo incontro. E non potenzialmente. Non chissà quando. Non se andrà tutto male. Stante la volontà di uccidere ogni possibile negoziato e mediazione rappresentata dall’ultima, delirante decisione di espellere i diplomatici, quel quadro è praticamente garantito. E in tempo reale. Il Governo non ha i mezzi per intervenire, chiaro e tondo. Altrimenti sarebbe già ricorso a nuovo deficit e non avrebbe limitato a un mese l’intervento sul costo del carburante.
E scordatevi un aiuto strutturale della Bce, come richiesto l’altro giorno da Antonio Tajani in quella che è apparsa la prima, lucida e disperata presa di distanza di Forza Italia dall’atlantismo parossistico del Governo. Con l’inflazione in Germania al 7,3%, scordatevi nuovo Qe. Scordatevi anche sostegni diretti che vadano oltre l’utilizzo dell’App oltre il 30 giugno, se non con condizionalità legate al Mes. Di cui, vedrete, fra pochi giorni tornerà all’ordine del giorno la necessità di ratifica della riforma da parte del Parlamento. E con tutti gli occhi sulle fosse comuni, passerà senza colpo ferire. Condannandoci anche in maniera ufficiale e formale, non più solo sostanziale.
Kiev vale tutto questo, al netto delle ombre che aumentano sempre di più attorno ai giochini Nato con la presidenza Zelensky prima dell’inizio della crisi? Se sì, benissimo. Avanti così, allora. Vi invito solo a riflettere su una questione: un tempo situazioni simili in Italia le gestiva Giulio Andreotti. Ora Luigi Di Maio.
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