“Siamo realisti, non sarà questa maggioranza a riformare giustizia e fisco. La ministra Cartabia può avere le idee chiare ma se sei in Parlamento con Pd e M5s, per i quali chiunque passa lì accanto è un presunto colpevole, è dura”. Parole e musica del senatore Matteo Salvini, intonate non a caso in un colloquio con un giornale nemico come La Repubblica.
E per quanto il numero uno leghista abbia voluto subito stemperare i toni anti-governativi, rilanciando con entusiasmo il sostegno del suo partito a una possibile candidatura di Mario Draghi al Colle, quel negare in nuce la possibilità di portare a termine la riforma della giustizia appariva un’implicita risposta all’aut aut della Guardasigilli, netta nel sottolineare come un eventuale fallimento nel percorso comporterebbe la revoca dei finanziamenti del Recovery Plan. Insomma, il destinatario di quel de profundis si scrive Draghi ma si legge Ue.
Di fatto, la Lega ha cominciato la campagna elettorale per le politiche e il contrattacco rispetto al tallonamento di Fratelli d’Italia in seno alla coalizione di centrodestra. E alla base dell’azzardo del numero uno della Lega c’è paradossalmente un contrafforte di puro europeismo: attaccare e alzare i toni fino a quando la Bce garantirà comunque copertura allo spread, smarcandosi nel frattempo da alleati scomodi e non lasciando il campo dell’anti-europeismo a Giorgia Meloni. Poi, si vedrà. Se per caso con il terzo trimestre l’Eurotower dovesse davvero diminuire gli acquisti e indebolire lo scudo sul nostro debito, innescando criticità tali da prefigurare ricorsi a patrimoniali o Manovre correttive o interventi sul sistema pensionistico, sarà rottura. E la responsabilità agli occhi dell’opinione pubblica cadrà su Pd e M5S.
La Lega, infatti, ha strategicamente cominciato il suo ritorno al passato euroscettico prima dell’estate. Un calcolo politico che pragmaticamente ha senso. Ma che rischia di tramutarsi nel più classico coltello in caduta libera da prendere al volo: se manchi il manico, sono guai. Perché già oggi il mercato prezza il Rubicone del tapering rispetto al nostro debito, tanto da aver rispedito lo spread in area 120 e il rendimento del decennale all’1,07%, un simbolico 0,01% più del pari durata greco. Certo, approfittando dell’aumento del ritmo di acquisto della Bce nel trimestre in corso, le nostre banche hanno operato un de-risk sull’eccesso di doom loop legato alle detenzioni di Btp. Operazione benedetta da Mef e Palazzo Chigi. Ora, però, si entra nel cosiddetto uncharted territory. Bank of America nel suo ultimo report prevede il rendimento del Bund nuovamente sopra l’1% nel secondo semestre di quest’anno, addirittura predicendo uno scenario di stagflazione globale. Senza scordare come le dinamiche ruotino poi tutte attorno alle mosse della Fed, la quale potrà prendere ancora tempo e giocare la carta della transitorietà dell’inflazione nel board del 15-16 giugno, ma dovrà sbilanciarsi al meeting di Jackson Hole di fine agosto. Nel frattempo, l’Italia potrebbe essere divenuta un enorme attracco a cielo aperto per i barconi in partenza dal Nord Africa, complici la stagione estiva e proprio le dinamiche dei prezzi del cibo, la vera dinamo delle primavere arabe del 2011, come mostra questo grafico. Anno dell’esplosione del nostro spread e della punta massima di crisi dei debiti sovrani europei, fra l’altro.
A quel punto, se il Governo Draghi non dovesse mostrare la faccia cattiva con l’Europa, la tentazione di staccare la spina alla propria presenza in Consiglio dei ministri per la Lega potrebbe divenire pura necessità di sopravvivenza politica. Inoltre, l’azzardo del leader leghista deve fare i conti con tre variabili. Primo, il profilo di Mario Draghi. Il quale per ora continua a fare spallucce rispetto agli attacchi più o meno velati del riottoso sostenitore, ma che potrebbe giocoforza vedersi costretto a reagire, se la situazione interna precipitasse.
Secondo, l’azzardo euroscettico del leader leghista si accompagna a quello sulle riaperture. E se proprio il primo ministro pare aver voluto inviare un segnale, facendo saltare il 17 maggio come data di estensione o eliminazione del coprifuoco e rimandando tutto di un’altra settimana, l’uscita di Boris Johnson sembra aver rinfrancato ulteriormente palazzo Chigi rispetto alla sua strategia dei piccoli passi e della cautela. Downing Street, infatti, è stata tanto sibillina quanto paradossalmente chiara nel mettere le mani avanti: oggi si riaprirà pressoché tutto a livello commerciale, come da programma. Ma la variante indiana sta facendo nuovamente aumentare contagi, ricoveri e decessi: «Potrebbero esserci sorprese sgradite lungo il percorso», ha dichiarato il premier britannico. E il fatto che la Germania abbia immediatamente reinserito il Regno Unito nella lista dei Paesi a rischio, segnala un’ambivalenza europea sul tema Covid che ha chiari connotati economici più che politico-sanitari. Spagna, Grecia e Portogallo stanno riaprendo a tempo di record, bruciando le tappe in vista dell’estate. Germania e Paesi del Nord si muovono con maggiore cautela. L’Italia pare stare nel mezzo, ostaggio di una coalizione quantomai eterogenea e divisa. Insomma, il vecchio Club Med che nel 2011 fece temere la fine dell’eurozona, si affretta e rischia. Quasi fosse conscio della fine dell’effetto scudo del Pepp. Gli altri, restano in guardia. E, paradossalmente, spingono proprio per un principio di normalizzazione delle politiche monetarie. Ancora una volta, in mezzo c’è l’Italia.
Terza variabile, il rischio che un eventuale avvitarsi della situazione macro in seno all’Ue porti come diretta conseguenza l’intervento del Fmi, come avevo già prefigurato nel mio articolo della scorsa settimana. Ipotesi tutt’altro che peregrina in linea teorica. Non fosse altro per l’organismo che l’ha palesata, quel medesimo Gruppo dei 30 che vede Mario Draghi fra i suoi esponenti più brillanti. Nonché autore – insieme all’ex governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan – del report Reviving and restructuring the corporate sector post-Covid, di fatto il manifesto politico che lo scorso dicembre anticipò la discesa in campo, dopo l’exploit sul debito buono al Meeting di Rimini.
Riassumendo: il 5 maggio, il Gruppo dei 30 ha pubblicato il suo ultimo working paper, dedicato proprio al tema del debito sovrano nell’era post-Covid. Quasi un’anticipazione del duello in sede Bce del 10 giugno prossimo. Per l’esattezza, il titolo completo è Sovereign debt and financing for recovery – After the Covid 19 shock. Ma è il sottotitolo ad aprire scenari più interessanti: Next steps to build a better architecture. E il perché è presto detto. Fra le varie raccomandazioni che il think tank avanza ai Paesi e alle entità sovranazionali per una migliore architettura del debito sovrano e delle sue dinamiche, in epoca di evidenti squilibri legati all’abuso di deficit come risposta allo shock pandemico, compare la messa in campo degli SDR (Special Drawing Rights) da parte del Fondo monetario internazionale come strumento di finanziamento a lunghissimo termine per i Paesi più in difficoltà. Proposta che ciclicamente fa capolino nei momenti di crisi e che, effettivamente, divenne realtà nel 2009 dopo la crisi Lehman Brothers, quando furono oltre 204 miliardi gli SDR (equivalenti a 313 miliardi di dollari statunitensi e 242 miliardi di euro, al cambio di fine 2011) allocati presso i Paesi membri del Fmi. Circa un terzo delle riserve globali dell’epoca, il cui ammontare era di circa 1.000 miliardi di dollari.
Di fatto, il rischio è quello di una Troika light. Ovvero, Commissione Ue e Bce che controllano rispettivamente stato delle riforme e sostenibilità del debito del nostro Paese, forti dei fondi già stanziati in seno al programma Sure e Fmi che sovrintende all’intero processo dall’alto dell’allocazione degli SDR, stante lo stand-by dei fondi del Recovery Plan o un aggravarsi tale della situazione da richiedere un salvataggio pressoché tout court dei conti pubblici. E il Gruppo dei 30 nel suo report parla della necessità potenziale di dispiegare l’intero arsenale di 650 miliardi di dollari degli SDR del Fmi per fronteggiare la crisi pandemica, tre volte tanto quanto messo in campo dopo il crollo Lehman.
Se saltassero per caso i soldi del Recovery Fund, come prospettato dal ministro Cartabia e di fatto anticipato/minacciato dal senatore Salvini e la Bce smettesse di operare in modalità di supporto strutturale del nostro spread, quale altra via avrebbe il Paese per evitare la ristrutturazione forzata del suo debito, salito al 160% del Pil a colpi di scostamenti? L’azzardo del leader leghista, insomma, è di quelli decisamente esiziali. Perché dietro all’orizzonte celeste di un mondo senza Ue da vendere in vista delle urne, c’è lo spettro di condizionalità ancora più vincolanti e stringenti. Per l’imposizione delle quali si assumerebbe pressoché in toto la responsabilità.
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