Il 2020, quantomeno il suo primo semestre, verrà ricordato nei libri di storia per la pandemia da Covid-19. Ma sui libri di economia, cosa troveremo scritto fra cinque o dieci anni? Forse che nei primi sei mesi di quest’anno, la Cina ha evitato l’arrivo del suo Minsky moment, proprio “grazie” al coronavirus? Questa teoria economica, elaborata da un post-keynesiano come Hyman Minsky, è semplicisticamente riassumibile in questo modo: una crescita eccessiva di debito o di credito all’interno di un’economia aumenta il rischio di un collasso improvviso dei prezzi degli assets. Di fatto, insostenibilità strutturale delle dinamiche macro. E default. Questo primo grafico, elaborato nel novembre del 2017 dall’Icis (Indipendent Commodity Intelligence Services), contestualizza appunto la teoria di Minsky con il trend dell’economia cinese e i suoi fondamentali. Di fatto, indebitamento da eccesso strutturale di credito.
Il motivo? La globalizzazione aveva trasformato il “retrobottega” del mondo, produttore di manufatti a larghissima diffusione, basso prezzo e spesso di pessima qualità nella prima catena di fornitura commerciale del mondo, Stati Uniti in testa. Di fatto, l’iper-produzione su cui Pechino basava la chiave del suo successo e del suo Pil stellare veniva ritenuta inesauribile, anche grazie ai miglioramenti produttivi e tecnologici che hanno alzato esponenzialmente la qualità in molti comparti e quindi in grado di “sterilizzare” automaticamente ogni eccesso di leva. Perché l’Icis si prese la briga di elaborare quel grafico? Perché solo un mese prima, parlando al Congresso del Partito comunista cinese, il governatore della Banca centrale (Pboc), Zhou Xiaochuan, evocò proprio il rischio di un Minsky moment, paragonando la traiettoria dell’economia cinese al trend di una replica della crisi subprime statunitense di un decennio prima.
Ecco le sue parole: “Se nell’economia convivono troppi fattori pro-ciclici, le fluttuazioni cicliche vengono amplificate e si innesca un clima di eccessivo ottimismo, accumulando contraddizioni insite che potrebbero portare al cosiddetto Minsky moment. Noi dobbiamo focalizzarci sulla prevenzione di un aggiustamento di questa drammaticità”. Come tutti ricordano, il 2018 è stato un anno di grandi sfide per la Cina, in primis quella della bolla azionaria che ha rischiato – per la seconda volta in due anni – di far saltare il banco dello schema Ponzi che regge l’intera impalcatura del miracolo asiatico.
Passata la buriana, a colpi di interventi emergenziali della stessa Pboc e di continue sforbiciate sui requisiti obbligatori di riserva delle banche per garantire liquidità, il presidente Xi Jinping decise che era ora di cambiare strategia, in ossequio alla grandeur di quello che potremmo definire un Nuovo secolo cinese. Nacque l’intuizione del faraonico progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta e, soprattutto, la grande sfida di trasformare l’economia cinese da produttrice a consumatrice, anche di servizi. Primo step, sgonfiare la bolla creditizia. Ivi compresa quella del sistema bancario ombra, vera dinamo dell’espansione del decennio precedente ma anche potenziale bomba a tempo innescata sotto la tenuta stessa del sistema.
Lo scorso autunno, prima che la pandemia cominciasse a stravolgere i piani, Xi Jinping – fresco di incoronazione pressoché a plenipotenziario a vita del Paese – ribadì la sua volontà di chiudere la stagione del credito a pioggia, aprendo solo a interventi mirati al fine di evitare eventi sistemici. Cominciarono però i default su bond on-shore, quelli denominati quasi sempre in yuan e senza particolare eco sui media occidentali: il problema, come mostra questo grafico, fu che in perfetta contemporanea con il Congresso del Partito, il tasso di quelle insolvenze su obbligazioni aveva già toccato il livello record del 2018. Con ancora due mesi e mezzo circa prima di arrivare al 2020 e con la gran parte delle maturazioni concentrate tra fine novembre e primi dieci giorni di dicembre. Cominciarono i grattacapi, insomma.
Che fare? Rimangiarsi i proclami – finalizzati anche a un appeasement finale verso il Fmi per il riconoscimento formale dello status di economia di mercato, dopo l’upgrade da Paese emergente a globale – di fine dell’indebitamento strutturale (atto estremamente sgradevole anche per un politico occidentale, figuriamoci per un capo di Stato cinese) – oppure lasciare che proprio il “mercato” facesse il suo corso, quasi Schumpeter incontrasse idealmente Mao-Tse Tung? Si scelse timidamente la seconda via, pur avendo già cominciato a iniettare un po’ di liquidità qui e là con la scusa della guerra commerciale con gli Usa, divampata prepotente in estate e destinata allo showdown sui dazi proprio prima delle festività di fine anno.
Ovviamente, nulla accadde e si arrivò frettolosamente alla cosiddetta Phase one dell’accordo fra Pechino e Washington, atto a tutt’oggi scritto sull’acqua ma capace di rimandare sine die l’ingresso in vigore delle tariffe sui beni di consumo di massa. Per capirci, quelli che avrebbero davvero fatto male, sia agli Usa che alla Cina. Nel frattempo, con l’arrivo dell’inverno, due presenze pressoché contemporanee facevano capolino sulla linea dell’orizzonte del Dragone. I primi focolai di Covid-19, apparentemente e ufficialmente frutto di abitudini alimentari al limite del tribale nel mercato del pesce di Wuhan e quanto riportato in questi grafici: da fine 2019 a tutto il 2021 le scadenze obbligazionarie, sia on-shore in yuan che off-shore in dollari, si presentavano come un vero e proprio muro insormontabile.
Il rischio? Quello scongiurato fino ad allora, facendo i salti mortali in nome della propaganda: una catena di default di tale magnitudo e controvalore da portare con sé il rischio potenziale dell’arrivo proprio del Minsky moment. Insomma, la stessa stabilità economica, politica e sociale della Cina pareva in discussione. Una Tienanmen finanziaria devastante, capace di spazzare via tutto e tramutare la crisi del 2008 in una passeggiata nel parco.
Ed ecco esplodere la pandemia. Una delle regioni produttivamente più attive del Paese in lockdown totale per 76 giorni, gli indici manifatturiero e dei servizi a picco, l’intero mondo che si vede precipitare in una spirale recessiva rapidissima e auto-alimentante. E per la Cina, i guai a febbraio erano davvero pesanti, come mostrano questi due grafici: il primo mostra i risultati di un sondaggio condotto il 14 di quel mese fra oltre 6.600 piccole e medie imprese cinese, al fine di valutare il loro grado di resistenza alla crisi a livello di liquidità e cash-flow.
Un disastro annunciato, poiché come mostra il secondo grafico, quelle aziende rappresentano la spina dorsale assoluta dell’economia cinese. E di fronte a loro avevano un chiaro rischio di insolvenza nel giro di settimane, contingenza che andava a combinarsi con il tasso di maturazioni obbligazionarie a rischio attese entro l’estate. Insomma, Minsky moment sempre meno ipotetico.
E ora, invece? Questo ultimo grafico parla molto chiaro e ci porta ai giorni nostri. Nel mese di marzo, la Pboc ha iniettato nel sistema, per la grandissima parte sotto forma di nuovi prestiti, qualcosa come 5,2 triliardi di yuan in un solo colpo (circa 730 miliardi di dollari) contro i “soli” 855 miliardi del mese di febbraio e ben oltre i 3,14 triliardi attesi dal consensus degli analisti interpellati. Una flebo di liquidità che ha portato la voce generale del cosiddetto Total Social Financing cinese alla fine del mese scorso al livello record di 262,24 triliardi di yuan, circa 37,3 triliardi di dollari: un aumento dell’11% su base annua, un ritmo di crescita più che doppio rispetto all’economia generale e un controvalore totale tre volte il Pil del Dragone.
Un azzardo, perché se una massa di denaro simile può in parte spiegare il dato “miracoloso” dell’indice manifatturiero di marzo, tutti quanti sanno che quella stessa liquidità è terminata – in una partita di giro automatica e in tempo reale – a tamponare debiti pregressi e a onorare scadenze obbligazionarie per centinaia di miliardi. Nelle vene dell’economia, resterà poco per ripartire. E, soprattutto, quei prestiti appaiono a rischio: davvero la Cina riuscirà a riattivare a forza quattro e in tempi record il suo ruolo di principale fornitrice di beni per il commercio e la produzione globale oppure la crisi in atto porterà con sé un rallentamento mondiale più lungo del previsto (con ovvio taglio di investimenti e approvvigionamenti) e un ripensamento strutturale delle catene di fornitura delle economia occidentali, scottate spesso mortalmente dalla crisi innescata dalla pandemia? Se questa seconda ipotesi dovesse rivelarsi anche solo in parte quella giusta, molti di quei debiti rischiano di andare in sofferenza o default conclamato e innescare una catena infinita di interventi emergenziali della Pboc. Di fatto, non solo mandando in soffitta i sogni di trasformazione sociale di Xi Jinping e la sostenibilità degli stessi progetti della Nuova Via della Seta (già pesantemente ritardati o ridimensionati, ameno al di fuori dell’Africa), ma, soprattutto, tornare a far gonfiare a dismisura la bolla creditizia. Di fatto, facendo rientrare dalla porta sul retro quel Minsky moment che si sperava di aver fatto uscire, almeno per un po’, dall’ingresso principale.
Restano due interrogativi, al netto delle ipotesi. Primo: se così fosse andata, il timing dolosamente ritardato e la messe di sottovalutazioni legate alla pandemia di cui Pechino si è resa responsabile, hanno avuto forse a che fare con calcoli legati al grado di tenuta massima del sistema? Insomma, si è tirata la corda fino a che la rottura non era ormai a un passo? Secondo, quasi parafrasando la copertina provocatoria del penultimo numero dell’Economist: il gioco di un eventuale utilizzo strategico della pandemia, magari sfuggito di mano rispetto alle previsioni, è valso la candela rispetto a un Minsky moment conclamato e incontrollato, a livello di costi economici e finanziari globali?