Spero che tutti abbiate letto l’ottimo articolo del professor Massimo Introvigne pubblicato giovedì su queste pagine. Se non lo avete fatto, ponete rimedio. Perché quelle parole di mero buonsenso sono un balsamo per le sinapsi, in un periodo in cui ragionare con la propria testa pare essere divenuto un atto eversivo da evitare come la peste, pena incorrere in scomuniche o pubblico ludibrio. Non si parlava ovviamente di economia o di finanza, bensì delle radici “culturali” che stanno alla base del supporto generalizzato di cui gode quel movimento Black Lives Matter che nelle ultime settimane ha infiammato le strade d’America, in nome di una presunta giustizia per George Floyd da ottenere a colpi di statue abbattute e negozi di sneakers vandalizzati sulla Fifth Avenue o su Rodeo Drive (almeno hanno gusto nella scelta dei punti vendita da assaltare).
Nell’articolo è ben descritto il brodo di coltura marxista ed elitario da cui trae linfa quel movimento, di fatto nato nel 2013, ma nell’immaginario collettivo divenuto una sorta di moderna appendice dei grandi movimenti di emancipazione afro-americana, da quello non violento di Martin Luther King alle Pantere nere di Malcolm X, passando per il suprematismo nero e antisemita di Louis Farrakhan.
Ora direte, cosa c’entra tutto questo con la Borsa e i mercati? Moto più di quanto possiate immaginare. Per oggi niente grafici, né cifre. Niente percentuali, né analisi dei deliri monetaristi della Fed. Oggi vi offro qualche conferma fattuale, non chiacchiere ideologiche, del fatto che quanto sta accadendo in America non solo risponde a un’esigenza precisa di destabilizzazione, ma, soprattutto, non è affatto come ve lo raccontano in tv o sui giornali. E state tranquilli che fra l’andare in piazza ad abbattere la statua di un generale confederato e chiudersi in caso a trattare titoli su piattaforma on-line, abboccando al mito del mercato rialzista del secolo, la differenza a livello di alienazione gradito allo status quo è davvero minimi.
Ieri sera SkyTg24 ha dedicato uno speciale a un mese dalla morte di George Floyd: più che legittimo. Il problema è cosa fai vedere, non il fatto che tu senta il bisogno di mostrarlo. E la narrativa, purtroppo, è drammaticamente unidirezionale: a parte qualche denuncia dell’eccessivo utilizzo della violenza, persino l’abbattimento delle statue viene di fatto inserito nell’indigesto pappone buonista e giustificazionista che nasce dall’eccessivo dosaggio nella ricetta di mal riposto e mal declinato senso di colpa occidentale. Non a caso, a Philadelphia il Consiglio comunale sta decidendo in questi giorni rispetto all’eliminazione della statua di Cristoforo Colombo. Insomma, le stesse istituzioni che quei monumenti dovrebbero curarli e difenderli, battono in ritirata preventiva. A casa mia, si chiama complicità.
Ora guardate questa tabella, è contenuta nell’ultimo studio del Pew Research Center, insieme a Gallup il più importante istituto di statistica degli Usa. Fonte tutt’altro che parziale, insomma. E cosa ne emerge? Che le vite dei neri contano, come recita lo slogan. Ma per i bianchi. E gli ispanici. E gli asiatici. Per tutti, tranne che per i neri.
Il numero di afro-americani che ha partecipato alle manifestazioni è infatti bassissimo, circa 1 su 6. La grandissima parte sono bianchi e di fede politica Democratica o comunque liberal. Insomma, diciamo che dai freddi numeri dello studio demoscopico emerge una realtà un pochino differente da quella che i media ci hanno propinato per giorni e giorni. E attenzione, qui nessuno sta giustificando l’atto compiuto dalla polizia: semplicemente, occorre raccontare l’intera vicenda.
Qual è la questione di fondo? Forse che i neri non partecipano alle manifestazioni per paura? Anche in questo caso, la realtà è sempre duplice. La vulgata autodistruttiva che sogna nuove Berkeley in ogni campus d’America, ovviamente, sposa questa tesi. Ma la realtà è davvero questa? Davvero gli afroamericani negli Usa hanno ancora paura di scendere in piazza per una causa, perché bersagli della polizia? O, forse, hanno paura degli epiloghi quasi sempre già scritti di quei cortei? O, peggio ancora (per la narrativa mainstream), non sono proprio d’accordo con le motivazioni di base di quelle proteste? Al riguardo vi invito ad andare a sentire l’intervista rilasciata giovedì a FoxNews da Robert Johnson. Chi è costui? È il classico esempio dell’afro-americano di successo, fondatore della Bet (Black Entertainment Television), canale via cavo nato proprio con il targeting della gente di colore e acquisito dal gigante Viacom. Lo slogan dell’emittente è Yes to Black e gli ultimi dati di rilevazione dicono che circa 88 milioni di americani ricevono il suo segnale in casa: insomma, una bella cartina di tornasole della situazione. Quantomeno, visto il profilo del fondatore e l’audience raggiunta, certamente più credibile di qualche migliaio di assaltatori di statue o qualche decina di editorialisti liberal che scrivono dall’appartamento in Central Park West.
E cosa dice Robert Johnson nell’intervista? “I bianchi hanno l’errata percezione del fatto che quelli di colore stiano tutti seduti in cerchio, applaudendo le loro manifestazioni e congratulandosi per l’importanza degli atti che compiono, come ad esempio abbattere statue di generali confederati che hanno combattuto per il Sud. A mio modesto avviso, invece, di fronte a quegli atti, gli afroamericani si mettono a ridere. Esattamente come ridono quando i bianchi dicono che i neri devono evitare i talk-show televisivi, poiché li strumentalizzano. Parliamoci chiaramente, la gente che sta abbattendo le statue e cercando di dare a quel gesto un valore di testimonianza, fa basicamente parte di una minoranza di anarcoidi borderline. Gente che non ha un’agenda politica reale, se non quella che pone come finalità ultima proprio l’abbattimento della statua”.
Poi, l’impietosa analisi, fatta da un uomo di colore che in America è diventato famoso, rispettato e miliardario grazie alla sua intuizione e al suo lavoro: “La gente che sta andando in piazza non sta pagando il college a un ragazzino di colore i cui genitori non possono permettersi tasse e retta. Non sta cercando di chiudere il gap salariale fra lavoratori bianchi e neri, ancora esistente in molte realtà. Non sta aiutando la gente di colore a emanciparsi dalla dipendenza cronica da welfare o dai sussidi alimentari. Simbolicamente parlando, il loro è un goffo e raffazzonato tentativo di rimettere a posto lo schienale della poltrona che si trova sul ponte del Titanic. Non significa assolutamente nulla per le reali necessità della gente di colore”. Peccato che SkyNews24 non abbia chiesto i diritti a FoxNews per ritrasmettere con i sottotitoli questa intervista, includendola nel suo bellissimo special dedicato a un mese di proteste per la morte di George Floyd, non credete? Forse il suo contenuto poteva risultare po’ urticante per le pelli abituate al balsamo calmante e rassicurante del politicamente corretto, si rischiava una brutta dermatite da contatto. Con la realtà.
E a confermare che l’intero impianto di un’America bianca, ricca e borghese che scende in piazza per pulirsi la coscienza fa parte di un logica ben consolidata di perpetuazione dello status quo attraverso atti apparentemente di rottura, lo conferma un reportage straordinario del Chicago Tribune, nel quale non solo si certifica come il democratico e liberal Illinois stia comprando armi come se non ci fosse un domani, ma – e soprattutto – che a farlo sono persone di dichiarata connotazione politica progressista. Tanto che un addestratore di tiro in un poligono, intervistato dal quotidiano, ammette come abbia registrato un boom di nuovi clienti per lezioni individuali: “È gente che non vuole che si sappia che detiene un’arma e vuole imparare a usarla. Me lo chiedono come prima cosa, mi impongono un rispetto assoluto della privacy a causa del loro credo politico che vedono in antitesi con l’atto che stanno compiendo”.
E i numeri che arrivano da Chicago, parlano chiaro. Tra l’1 e il 17 giugno, le richieste di permesso per un porto d’armi (le cosiddette Foid cards) sono state 42.089 contro le sole 7.000 dello stesso periodo nel 2019: un aumento del 501%. E anche i tempi dei background checks, ovvero i controlli che l’Fbi compie sui nuovi permessi prima che questi diventino effettivi, in Illinois sono passati dai canonici tre giorni a più di una settimana, portando lo Stato al livello della California, dove fra acquisto dell’arma e suo porto e utilizzo legale passano 10 giorni. Insomma, i liberal hanno paura e si armano fino ai denti. Hanno scoperto, pur vergognandosene in pubblico, il Secondo Emendamento, la cui difesa viene posta da Donald Trump e dai suoi buzzurri e razzisti seguaci quasi come primo punto assoluto dell’agenda politica.
Chiamatelo contrappasso o karma. Io lo chiamo cattiva coscienza e ipocrisia strisciante. La quale, però, va oltre. Perché questo tipo di latente censura della realtà, questa mano di vernice ideologica sul muro troppo rovinato del mondo, si riflette anche nell’economia e nel disastro che le Banche centrali stanno compiendo, mentre il coro quasi unanime della stampa le dipinge come i salvatori dell’universo. Stessa logica di chi scende in piazza a distruggere statue, salvo ogni tanto trovare dei Robert Johnson che rimettono le cose al loro posto.
Vi faccio un esempio, chiaro e semplice. Ieri tutti i siti – nella sezione economia e finanza – rilanciavano la notizia in base alla quale la Fed aveva deciso un cap sui dividendi delle banche e un divieto/limitazione dei buybacks azionari. Di fatto, un atto che viene percepito immediatamente come di giustizia sociale, nel mondo tutto ideologico dei banksters che affamano il mondo (anche grazie ai soldi del tuo continuo indebitarti e vivere sul credito al consumo). Nessuno però si è preoccupato di raccontare anche la parte iniziale della storia, ovvero la comunicazione – a Wall Street aperta, mentre la questione dei dividendi è stata resa nota a fine contrattazioni – che Office of the Comptroller of the Currency e Fdic davano vita a un clamoroso e ulteriore ammorbidimento della Volcker Rule di regolamentazione bancaria contenuta nel Dodd-Frank Act voluto da Obama dopo la crisi di Lehman Brothers. Un bell’intervento sui margini degli swaps che, a conti fatti, per le banche di Wall Street si sostanzierà nella “liberazione” di circa 40 miliardi di dollari. Il tutto, in vista degli stress test della Fed del 30 giugno.
Avete mai visto un regolatore alleggerire i termini di accountabilty alla vigilia di un esame, senza che l’esaminatore abbia alcunché da ridire? Ecco, negli Usa è appena stato fatto. Ma i media vi hanno raccontato solo la seconda parte, quella spendibile e di propaganda. Come vedete, tout se tient.