Il no alla ratifica del Mes della Commissione Bilancio della Camera prima e dell’Aula di Montecitorio poi, paradossalmente, sembra configurare un elemento di chiarezza. Di fatto, un veto differito rispetto a quel Patto di stabilità firmato solo 24 ore prima con modalità da blitz. Perché dopo semestri di discussioni, tutto è stato deciso nell’arco di mezza giornata. I contenuti? Ignoti. E chi in queste ore sta passando al microscopio l’accordo, ingrandisce le righe di un foglio di carta in bianco. Ora, però, Roma pare aver deciso. Obtorto collo. E proprio il fatto che a quella della Commissione sia seguita la bocciatura della Camera, configura di fatto un doppio scenario.
Primo, la prima, vera crepa in seno alla maggioranza. Fratelli d’Italia e Lega da una parte, Forza Italia timidamente dall’altra. Secondo, l’assunzione di responsabilità nel ritardare l’entrata in vigore della nuova versione del Fondo salva-Stati. E se davvero quel Mes fosse servito come cornice legale per un prestito-ponte verso qualche traballante istituto Nord-europeo, ora i guai potrebbero tramutarsi da potenziali a reali. Non a caso, le cronache di corridoio parlano di un ministro Giorgetti che si sarebbe lasciato sfuggire un eloquente adesso ce la faranno pagare.
C’è infatti una contraddizione tanto di fondo, quanto contemporaneamente ontologica e di base nella nostra strategia. E che appunto rischiamo di pagare cara. Del Mes si temono clausole e natura di eterodirezione delle scelte sovrane da parte, di fatto, di una Banca sovranazionale. Giusto. Date però un’occhiata al nostro spread. Da giovedì scorso è calato vistosamente, ora in area 160. Miglioramento dei dati macro? No, regalone Bce sul reinvestimento titoli e il roll-off di bilancio sulle detenzioni Pepp. Questo non significa già essere dipendenti dall’Europa ed eterodiretti nelle decisioni, stante una Bce che – operando in altro modo – avrebbe spedito il differenziale a 300 in 3 giorni?
Inoltre, l’unico contenuto del nuovo Patto di stabilità su cui apparentemente tutti concordano è quello di una riduzione del debito nell’ordine dell’1% all’anno per i prossimi 3 anni. Nella manovra al vaglio delle Camere, quella percentuale è dello 0,1%. Se davvero il nuovo parametro fosse confermato, parliamo di 15-20 miliardi all’anno da reperire. La Manovra di quest’anno pesa in totale circa 24 miliardi, di cui 16 in deficit. Significa che per i prossimi tre anni avremo una Manovra correttiva ex ante. Ovvero, una da 15-20 miliardi solo per i vincoli accettati con l’Europa. L’altra per fare andare avanti il Paese. E i soldi, dove li troviamo?
E se per caso qualcuno prezzasse questa criticità, al netto dello scudo Bce fino a fine 2024 e cominciasse a vedere il bluff del nostro spread, facendo traballare i costi di finanziamento del debito in asta, senza più il compratore di unica istanza? Cosa significa questo, potenzialmente? Tagli lineari. Ovvero, tagli ai trasferimenti agli Enti locali (i quali alzeranno le imposte per garantire i servizi), sanità e istruzione/ricerca. Ma non basterà. Quindi, privatizzazioni. A spron battuto. Vendita dell’argenteria. Un altro 1992 senza Mani Pulite. Per ora, almeno.
Andrà così? Forse no. Sicuramente è un gioco. Tutto sta a capire se sia un chicken game o un gioco delle parti. Pensateci. Dopo il no della Camera alla ratifica del Mes, non solo lo spread non è esploso ma, addirittura, è frazionalmente e ulteriormente calato. Cosa accade, ora? Apparentemente, nulla. Dall’Europa è arrivata una presa d’atto della decisione italiana che più formale e asettica non si poteva. L’approssimarsi del 31 dicembre e della decadenza del regime temporaneo di fondo salva-banche per il Mes non crea preoccupazioni, quindi? Meglio così. L’Italia dal canto suo ha rispettato la decisione sovrana dell’Aula e auspicato che questo serva per una più ampia riflessione. Tradotto, via la tutela bancaria. Perché il sistema italiano è sano, quindi per noi non è una priorità.
Nel frattempo, il silenzio tombale più assoluto è calato proprio sul Patto di stabilità. Se fossimo dinanzi a un gioco del pollo – la gara automobilistica dove perde chi si lancia prima dalla macchina in corsa – parrebbe che l’Italia abbia innalzato un veto ex post a quelle nuove regole. Ovvero, se volete il Mes bancario, sottobanco si rivedono i parametri su debito e deficit. E se davvero dalle parti di Berlino c’è timore per qualche sconquasso creditizio, il ricatto potrebbe funzionare. Se fosse un gioco delle parti, invece, questo can can servirebbe solamente a garantire a entrambi gli schieramenti un rilassamento delle posizioni senza contraccolpi a livello di opinioni pubbliche (ed elettorali) interne in vista delle Europee. Alla fine, tutti cederanno qualcosa sottobanco. E nessuno si accorgerà di nulla.
Attenzione, però. Perché dopo Ubs che sente il bisogno di rendere nota urbi et orbi la sua volontà di vendere un mini-pacchetto di prestiti erogati da Credit Suisse ad aziende italiane con rating junk, ecco che sempre dalla Svizzera arriva la notizia di un’indagine della vigilanza sui prestiti di Julius Bear al colosso immobiliare austriaco Signa. E i regolatori ci tengono a rendere noto come l’inchiesta fosse partita Prima del default del conglomerato. Insomma, la Svizzera da sempre tacciata di eccessiva segretezza e amore di riservatezza per i suoi affari bancari si sta tramutando in un palazzo di vetro, quanto la trasparenza pare divenuta tratto distintivo delle ultime settimane. Di converso, la ultra-legiferante e regolamentata Europa vara in 24 ore un Patto di stabilità che aveva necessitato finora di semestri interi di veti e litigi. E lascia che l’Italia blocchi il ruolo del Mes come coadiuvante al Fondo di risoluzione delle crisi bancarie senza battere ciglio. Bce muta. Eba muta. Spread in calo. A voi pare tutto normale?
Qualcosa non torna. Come appare sospetto il silenzio che giunge da Basilea. Ultimamente molto attiva e ciarliera. Oggi anch’essa muta. Ma di una postura afona che genera un rumore di sottofondo assordante.
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