Le “difficoltà” finanziarie del gruppo cinese Evergrande non hanno finora avuto un effetto visivo particolarmente significativo sui listini. Lunedì i principali indici azionari globali hanno reagito male, ma sostanzialmente non è successo niente rispetto alla progressione degli ultimi diciotto mesi. Eppure ci sarebbe da preoccuparsi perché le decisioni che verranno prese in Cina possono segnalare un cambio di atteggiamento del Governo di Pechino che in un mondo complicato, anche geopoliticamente, decide di sacrificare la “finanza” per salvare cose evidentemente più importanti. Gli investitori non hanno mostrato particolare preoccupazione non per una mancanza di attenzione o di comprensione, ma perché non ci sono alternative ai mercati. Fino a che i mercati rimangono quelli degli ultimi mesi, soprattutto in una fase di inflazione alta e sottostimata dai dati ufficiali, non c’è un’alternativa ai mercati. Nell’ultimo anno e mezzo sono stati il posto più facile dove tenere i soldi e controbilanciare gli effetti dell’inflazione che mangia i risparmi. 



Tutto questo vale fino a che la Fed decide di tenere in piedi il gioco continuando a immettere liquidità nei mercati spiegando che l’inflazione è “transitoria”. L’inflazione non è solo il prodotto della liquidità delle banche centrali; c’è anche la transizione ecologica dell’Europa che costringe a rimpiazzare fonti energetiche a basso costo con altre costose e inaffidabili a tempo record e poi ci sono i problemi nelle catene di fornitura globali. Certamente, però, le politiche delle banche centrali non sono un dettaglio secondario in questo scenario. 



I problemi geopolitici ed economici che stanno covando da mesi sono depotenziati da liquidità ampia e abbondante sui mercati, ma nessuno può far finta che non ci siano. Qualsiasi elemento che faccia intravedere politiche monetarie meno accomodanti diventa di importanza capitale perché farebbe rientrare improvvisamente dalla finestra tutti i problemi che sono rimasti ai margini. L’autunno del 2008, con il fallimento di Lehman, ha avuto una lunga gestazione; il fallimento di Northern Rock è arrivato un anno e mezzo prima. Citiamo Lehman perché qualsiasi rialzo dei tassi nel 2021, dopo quasi due anni di debiti in espansione, avrebbe effetti difficile da calcolare.



Una cosa è certa: sia nel 2008, fallimento di Lehman, che nel 2012, crisi dei debiti sovrani, a salvare l’Europa ci hanno pensato gli Stati Uniti con il regalo della rivalutazione del dollaro e con i canali aperti dalla Fed verso la Bce e le banche europee. Più che di euro o dollaro dovremmo parlare di euro-dollaro e il perno di questa entità non sta di certo in Europa. 

Siamo in un mondo meno globale, in cui le catene di fornitura vengono ristrutturate di conseguenza e in cui l’Atlantico si è improvvisamente allargato. L’ultimo accordo sui sommergibili australiani non depone a favore di un rinnovato impegno americano in Europa né di una convinzione, americana, della sua importanza strategica. In un mondo dove si definiscono le alleanze e ognuno sembra poter badare solo ai suoi non è chiaro cosa succederebbe in caso di grande volatilità finanziaria. Non è chiaro se gli Stati Uniti potrebbero o vorrebbero tutelare anche il Vecchio continente che oltre tutto si avvia spedito verso un suicidio “green”. La difesa finanziaria americana arretrerebbe includendo un numero più ristretto di alleati. 

Non sappiamo quanto siano pronti i mercati a una Fed meno accomodante, né se lo scopriremo stasera. L’unica cosa che sappiamo per certo è che i mercati sono andati avanti per la loro strada nonostante l’inflazione, nonostante le tensioni geopolitiche e nonostante i problemi politici interni sia in Usa che in Europa. Hanno resistito persino ai primi effetti della rottura delle catene di fornitura globali sulla disponibilità di beni. 

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