Senza colpo ferire, Mario Draghi ha cambiato totalmente gli assetti della politica italiana. Ha lavorato sottotraccia, in silenzio. Ha usato i suoi cavalli di Troia. E di colpo, la forza politica che per mesi sembrava destinata a essere l’ago della bilancia del futuro post-emergenziale italiano si è liquefatta. La Lega ha voltato le spalle al segretario. Giancarlo Giorgetti ha dettato silenziosamente la linea sul green pass, facendosi promotore del sentimento prevalente in seno al partito e sul territorio di riferimento. E attenzione a non perdere la bussola politica rappresentata proprio da questo elemento qualificante: per quanto decisamente pragmatico, moderato nei modi ed estremamente rispettato a livello bipartisan per la sua preparazione, il ministro delle Sviluppo economico ha ancora un rapporto fortissimo e diretto con il Nord produttivo. Un qualcosa che Matteo Salvini ha perso da tempo, inseguendo la chimera del partito nazional-sovranista. Cosa accadrà in casa Lega è difficile dirlo, certamente una debacle alle amministrative – Milano in testa, dove il sindaco uscente Sala ha già la rielezione in tasca e deve unicamente attendere di capire se vincere già al primo turno – potrebbe accelerare certe dinamiche interne, spinte soprattutto dai potenti amministratori locali del Carroccio. Preventivabile. Anzi, decisamente scontato.



Meno automatica, almeno per il sottoscritto, era invece la resa incondizionata del sindacato. Non tanto per volontà reale di contrapposizione al Governo, quanto per necessità di salvare la faccia davanti agli iscritti. E non cadiamo tutti nella trappola del green pass: la questione è che in questo Paese ci sono più di 80 tavoli di crisi aziendali aperti, diretta competenza proprio del ministro Giorgetti insieme a quello Pd del Lavoro, Andrea Orlando. Mentre il Parlamento e l’esecutivo si trastullano sulla legge relativa alle delocalizzazioni, le multinazionali se ne vanno. Di continuo. Di fronte a uno scenario simile, Cgil-Cisl-Uil avrebbero dovuto alzare un minimo di barricata. Ovvero, ok al green pass per tutti, ma la questione dei tamponi gratuiti deve rappresentare una conditio sine qua non al nostro sì. Altrimenti, sciopero generale. In stile governi Berlusconi, tanto per fare un esempio di come l’ideologia abbia in passato mosso le piazze. Invece, tutto in cavalleria. Eppure, le vaccinazioni paiono correre spedite, quantomeno nelle fasce giovanili. Eppure, il Pil continua a rimandare echi di crescita cinese. Le fabbriche paiono talmente piene di lavoro da imporre turnazione, pur con la spada di Damocle della mancanza di componentistica e materiale per la crisi globale sulla supply chain.



Qualcosa, signori, non torna. E non tanto per la rapidità con cui l’esecutivo si è premurato di operare a leva per rendere meno cara la prossima bolletta energetica. Più che altro, per la scelta di introdurre da subito un elemento divisivo come la revisione degli estimi catastali nella discussione pre-Finanziaria.

Ora, sgombriamo il campo dalle facili ipocrisie: tutti sanno che l’agenda Draghi è scritta a Bruxelles. In primis, lo sanno al Quirinale. Quindi, evitiamo false indignazioni da verginelle mal recitate. La questione è la rapidità e le modalità ben poco urbane con cui si è imposta l’accelerazione sul tema, tanto rispetto alla capacità di muovere risorse quanto di scatenare mal di pancia politici fra i membri della coalizione. In questo caso, non solo la Lega ma anche Forza Italia. E, probabilmente, Italia Viva e una parte residuale dei riformisti Pd. È sospetto questo blitz. Molto sospetto, al netto dei rinvii diplomatici ad altro Cdm. Sia perché opera da chiodo nella bara per la segreteria Salvini, essendo un altro punto qualificante della sua agenda politica che viene calpestato con le scarpe infangate dall’esecutivo. Sia perché subito prima dell’estate, al fine di ottenere i 25 miliardi di anticipo sui fondi del Next Generation Eu, era stato già messo il turbo alla riforma Cartabia, capace di terremotare M5S e quasi farlo sbandare del tutto. Non a caso, da allora Beppe Grillo è sparito dalla scena. Ritirata strategica, in attesa forse di capitalizzare il dissenso. Guarda caso, Giuseppe Conte si è già definito esausto dal suo ruolo, preannunciando una leadership breve.



Insomma, Mario Draghi sta operando come un caterpillar, un Terminator, il Mister Wolf di Pulp fiction. O, per chi ama il wrestling, The undertaker. E un uomo come lui sa benissimo invece quando occorre alternare bastone e carota. Se non lo fa, è perché non può. Chi sta gestendo i tempi e i modi della politica italiana?

Immagino che non vi sia sfuggita la corrispondenza di amorosi sensi fra il presidente del Consiglio e Angela Merkel in questi ultimi giorni di Cancellierato. Di più, il feeling di cooperazione italo-tedesco tout court esploso come un innamoramento adolescenziale a primavera: tumultuoso e improvviso. Tale da coinvolgere le relative Confindustrie e vedere in campo addirittura i due presidente della Repubblica, pur da tempo in ottimi rapporti personali. Il 26 settembre in Germania si vota e per la Cdu non si mette bene. D’altronde, ha scelto un candidato degno di Mister Bean. Mentre quello della Spd, il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, non sta sbagliando un colpo. Il paradosso? Tutta la stampa progressista tedesca imputa a Scholz di essere lui il vero erede della Merkel, pur essendo formalmente di sinistra. E lui non si offende. Anzi, a un giornalista ha risposto così: «Quando si è paragonati a un Cancelliere di successo, la cosa fa piacere e non deve creare imbarazzo». D’altronde, fu un altro politico di sinistra, Gerard Schroeder, a dar vita alla riforma del mercato del lavoro più radicale e di destra della storia tedesca del Dopoguerra.

Insomma, la Merkel sta lavorando a una Grosse Koalition. Ma davvero Grosse. Nel senso che Italia e Germania potrebbero condividere un governo-ombra che gestisce la agende realmente dirimenti, politica estera in testa, bypassando bellamente i Parlamenti nazionali. Un asse Draghi-Scholz, capace di contemperare le necessità di un ritorno alla disciplina pre-pandemia con un approccio più soft al Patto di stabilità: non a caso, Mario Draghi sta sì spingendo per l’opzione di scappatoia verde nel conteggio delle metriche di debito e deficit, ma è anche l’uomo del debito buono e debito cattivo. E non a caso, ha messo sul tavolo – prima del previsto e senza troppi convenevoli – la carta inattesa degli estimi catastali. Inattesa in Italia, però. Non in Europa.

Prossima tappa? Le pensioni. Molto probabilmente, a stretto giro di posta. Perché il patto era chiaro: i 25 miliardi arriveranno puntuali e tutti sull’unghia, accontentandosi l’Ue unicamente della riforma della giustizia. Passata però l’estate, periodo in cui occorreva ottimizzare la ripresa attraverso il turismo, l’accelerazione delle riforme italiane deve essere netta. Nettissima. E così è. Pensate che il passaggio in doppia cifra del nostro spread in perfetta contemporanea con il blitz del governo sul green pass totale sia casuale? Credete davvero alla balla della Bce che ridurrà gli acquisti a partire dal 1 ottobre? Piaccia o meno, Mario Draghi è il principale candidato al ruolo ufficialmente inesistente di primo ministro d’Europa.

I suoi referenti? La Bce, di fatto la Bankitalia collettiva. E la Commissione Ue, il suo vero Consiglio dei ministri. Ed evitiamo per favore false indignazioni patriottico-sovraniste: quando il tuo spread dipende unicamente dal Qe di Francoforte, altrimenti porti i libri al tribunale della Troika, ti sei già consegnato mani e piedi all’Europa. Chi temeva che l’attivazione del Mes portasse come conseguenza il commissariamento del Paese, ora è servito. La situazione dei conti reali dell’Italia è tale da aver reso necessario un qualcosa di ancora più estremo del commissariamento, formale o sostanziale che sia: il Parlamento esiste come mero passacarte di un potere esecutivo che sta già oggi altrove. Non a caso, viene coinvolto il meno possibile e sotto schiaffo permanente della fiducia. E tutti, alla fine, cedono e abbozzano: Lega, Pd, M5S, sindacati. Resta fuori solo Fratelli d’Italia. Utilissima al Governo, sia perché depotenzia la Lega più estrema che fa riferimento a Matteo Salvini, sia perché un esecutivo di questa natura deve dissimulare certe eterodirezioni proprio grazie agli strepiti ben udibili dell’opposizione interna. La quale, di fatto, abbaia alla Luna. Perché parla a Roma, quando decide Bruxelles.

L’autunno sarà duro. E l’inverno ancora peggiore. Non a caso, in tempo record il Governo ha messo mano al portafoglio per rendere meno pesante la bolletta energetica. Il popolo va blandito nelle sue necessità di tutti i giorni, altrimenti rischia di accorgersi di cosa stia realmente accadendo nel quadro generale. E in regime di stato di emergenza, fino al 31 dicembre. Invece, la consapevolezza è un lusso che ormai questo Paese può permettersi solo a cose fatte. Forse, alla luce di questi puntini da unire, anche gli allarmi del professor Cacciari appaiono meno dei meri esercizi di frattura del capello.

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