E alla fine, madame Realtà entrò a Palazzo. Il ministro Cingolani, l’uomo che in prima battuta prefigurò l’addio indolore al gas russo dell’Italia già entro fine 2022 e che da giorni snocciolava percentuali trionfalistiche sullo riempimento delle nostre riserve in vista dell’autunno, è capitolato. Miseramente. A fronte della notizia riguardo la chiusura per manutenzione del gasdotto Nordstream dall’11 al 21 luglio prossimi, ovvero dallo spoiler della pressoché interruzione totale di rifornimenti dalla Russia, il titolare del dicastero più fantasioso della Repubblica ha ammesso che senza Mosca il rischio è quello di un inverno problematico. Tradotto, fabbriche con la produzione a singhiozzo, razionamenti e distacchi programmati per evitare i black-out nella forma più drammatica. Parliamo di gas e luce, il minimo sindacale per una società che si ritiene sviluppata e fa orgogliosamente parte del G7.
E proprio le mosse concepite e varate a quel simposio in Baviera avrebbero spinto la Russia a decidere che Nordstream aveva impellente bisogno di una messa a punto. E di quelle serie, poiché dieci giorni di stop totale ai flussi nel pieno di una nuova impennata del prezzo del gas, equivalgono davvero a una prova generale di crisi strutturale. Cosa accadrà alle utilities tedesche, a forte rischio di andare a fare compagnia a quella Uniper costretta a ricorrere alla garanzia statale sulle linee di credito, poiché letteralmente dissanguata dagli acquisti di gas sullo spot market? E cosa accadrà all’Italia, capofila di una linea dura sulle sanzioni che sta per rivelarsi totalmente suicida?
Perché nel frattempo, ecco che quanto anticipato fin dall’inizio dal sottoscritto sta rapidamente e ineluttabilmente divenendo realtà. L’Algeria, infatti, è ben contenta di fornirci gas per rimpiazzare quello russo, come da accordi stipulati dal duo Draghi-Di Maio. Peccato che, fiutato l’affare e in ossequio alla legge del suk, ha deciso di alzare i prezzi. E di parecchio. E che dire della Libia? Casualmente, nel pieno di questo mese di luglio di transizione forzata per l’Europa, fra Tripoli, Bengasi e Tobruk tornano le proteste. Violente. E quasi certamente in grado di far nuovamente collassare il labile equilibrio interno, innescando il rischio di nuove elezioni e di una nuova, insanguinata campagna elettorale. Comunque vada a finire, un risultato è già stato ottenuto: prezzo del petrolio in aumento, poiché la produzione libica è letteralmente crollata. E non si sa fino a quando.
E chi gestisce, di fatto, la Libia nei suoi meandri di destabilizzazione meno confessabili? Chi ha tolto di mezzo Gheddafi senza tanti scrupoli, proprio per garantirsi risorse e un playground di caos energetico da utilizzare quando più necessario? Chissà. Un bel problema, tanto che il ministro Guerini ha immediatamente reso noto come la Nato stia alzando la guardia. Praticamente, il topo messo a custodia del formaggio. Anzi, il piromane a cui si regala una divisa da pompiere. Ma ecco che tutto parte da qui, quello che possiamo definire il grande inganno. A cui, chiaramente, il governo dei Migliori ha creduto fin dal primo momento. E ora suda freddo.
A giugno e per la prima volta in assoluto nella storia, l’Europa ha importato più gas liquefatto dagli Usa che gas naturale via pipeline dalla Russia. A confermarlo, gli ultimi dati appena pubblicati dall’IEA. Un trend che ha una genesi scontata: l’aumentare delle sanzioni e del conseguente utilizzo dei flussi di gas come arma diplomatica da parte della Russia ha spinto l’Ue verso fonti alternative. E gli Usa, stante anche il rafforzamento dei rapporti Nato, sono felicemente corsi in aiuto degli alleati. Ora, però, occorre porsi qualche domanda di prospettiva.
Primo, quanto durerà questo trend record di esportazioni statunitensi? Il mese di giugno, infatti, ha beneficiato di cargo che erano già programmati e non ha risentito dell’incidente occorso all’hub texano della Freeport LNG, principale punto di partenza per i tankers diretti nel Vecchio Continente. Le ultime indicazioni giunte dal management della mega-utility Usa parlavano di esportazioni seriamente ridimensionate almeno fino al quarto trimestre di quest’anno, quindi quella dinamica che ha consentito il sorpasso storico rischia di arrestarsi proprio nel momento più delicato: l’estate, quando occorre invece aumentare le scorte per garantirsi stoccaggi per l’inverno. E se fino a una settimana fa vigeva ottimismo rispetto a una riapertura in tempi record, proprio venerdì scorso la U.S. Pipeline and Hazardous Materials Safety Administration (PHMSA) ha pubblicato una nota nella quale ritiene pericoloso per la sicurezza pubblica una totale riattivazione delle attività nella struttura senza che siano poste in essere misure correttive per l’integrità.
A tal fine l’ente, controllato dal Department of Transportation, ha ordinato alla Freeport LNG la presentazione entro 60 giorni di un’indagine esterna, i cui risultati saranno dirimente per il nulla osta federale alla riapertura totale delle attività, Insomma, almeno fino al 1 settembre, export provvidenzialmente (per i consumatori Usa) compromesso.
Secondo, quanto questo trend – in caso proseguisse, ancorché su volumi decisamente minori – impatterà sul nodo fondamentale che il nostro Paese ha posto in sede di Consiglio Europeo e di G7, ovvero il tetto sul prezzo del gas? Se infatti la solidarietà atlantica può apparire una motivazione sufficientemente solida per non temere contraccolpi, occorre sottolineare come le esportazioni record cominciate dagli Usa già in aprile siano state garantite da un arbitraggio favorevole per i grandi traders di materie prime. Lo spread di prezzo fra LNG statunitense e Dutch europeo era tale da spingere gli esportatori a dirottare verso l’Europa i carichi destinati al mercato asiatico, ma la variabile dell’economia interna statunitense potrebbe ora inevitabilmente giocare a sfavore. Perché l’ultima rilevazione del tracciatore in tempo reale del Pil Usa per il secondo trimestre della Fed di Atlanta (GDPNow) ha segnato -2,1%, un dato che non solo manda ufficialmente in contrazione tecnica quello dell’intero primo semestre, ma che è peggiorato a tempo di record dal -1.0% soltanto del giorno prima (30 giugno).
Insomma, a fronte di una recessione ormai garantita, gli Usa scontano comunque un’inflazione ai massimi dal 1981 e un prezzo del carburante alla pompa attorno alla quota psicologica dei 5 dollari al gallone (4,85 la media nazionale). E l’ultimo sondaggio Gallup conferma come oltre il 60% degli americani interpellati abbia confermato come questa criticità peserà sulla durata e la destinazione delle loro vacanze. Il tutto a cinque mesi dal voto di mid-term. Davvero gli Usa continueranno a foraggiare l’Europa con il loro prezioso gas, invece di trattenerlo in patria e cercare così di tamponare i fall-out dell’inflazione, in attesa che la Fed compia il miracolo? E se sì, lo faranno accettando la logica del prezzo calmierato e del price cap richiesto da Mario Draghi e inserito a forza nel documento finale del G7? Al netto della buonafede, business is business. Come plasticamente dimostrato dall’Algeria.
P.S.: Chi ancora auspicasse un regime change in Russia sullo stile libico, farebbe bene a guardare alle scene che giungono in questi giorni da Tripoli, Bengasi e Tobruk. E pensare che prima di capitolare, Vladimir Putin userebbe l’opzione nucleare.
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