Non c’è molto da stupirsi: quando muore un “gregario di razza”, succede sempre così. Fateci caso, vale per tutti: attori, sportivi, cantanti. Gente nota e apprezzata ma non idolatrata, la quale appena abbandona questo mondo si scopre aver avuto un seguito di fans degno di una star di prima grandezza. Ovviamente, il tutto dura un battito di ciglia. A esequie ancora in corso, tutto torna alla normalità. In queste ore, sono i curdi i protagonisti di questa ondata di solidarietà, stima e affetto di massa. Soprattutto sui social network, moderno termometro del grado di disagio di una società. Tutti a maledire la Turchia e gli Usa, tutti a ricordare l’eroica resistenza di quel popolo senza patria contro l’Isis. Per tutti noi. E via con fiumi di retorica, degna di miglior causa.
Parliamoci chiaro: il popolo curdo è fatto di guerrieri di prima categoria, gente che non si arrende mai. Come i vietnamiti. Come gli afghani. Uomini e donne disposti a morire, piuttosto che arrendersi. Innegabile. Ma ricordiamoci anche che il popolo curdo ha – dal suo punto di vista, giustamente – un’unica stella polare a guidarne cammino e scelte: la nascita e il riconoscimento del Kurdistan a cavallo di tre Stati, l’idea di patria negata. Di fronte a quell’obiettivo, si è sempre mostrato totalmente laico a ogni scelta di schieramento e alleanza. E, come spesso accade, ha dato vita ad avvitamenti carpiati degni di un trampolino olimpico. Sacrosanto, ci mancherebbe, anche se penso che i cristiani siriani avrebbero la loro versione della storia da fornire, se interrogati rispetto all’idea di gestione del potere che le brigate curde hanno, quando conquistano un territorio.
Diciamo inoltre che la partita con la Turchia è aperta da tempo, senza esclusione di colpi. E che un tipino come Recep Erdogan applicasse alla lettera l’insegnamento di JFK – “Perdona i tuoi nemici ma ricorda i loro nomi” – c’era da aspettarselo, una volta che fosse cambiato il vento. E in Siria il vento spira in molte direzioni, repentinamente. Quella statunitense, certo. Ma anche e soprattutto quella russa e iraniana. E quindi, prima di alzare la bandiera rosso-stellata della causa curda, ragioniamo su qualche passaggio.
Primo, gli stessi curdi hanno dichiarato che, al netto del dietrofront dei soldati americani, se la situazione dovesse peggiorare, potrebbero cercare sponda proprio in Mosca e Teheran. Legittimo. Parliamo, però, della stessa Russia che attraverso il ministro degli Esteri, Serghei Lavrov, ha già detto che intende porsi nel ruolo di mediatore per giungere a un accordo storico fra le parti. Non ha affatto accusato la Turchia, schierandosi dalla parte dei curdi. Parliamo infatti dello stesso Paese che questa estate ha consegnato batterie missilistiche S-400 proprio alla Turchia di Recep Erdogan, membro Nato. La stessa Turchia che oggi invade il nord della Siria.
E gli Usa? Stessa storia. Hanno sempre, storicamente utilizzato i popoli locali come carne da macello dei loro interessi geopolitici (troppe bare imbandierate che rientrano in patria non fanno bene ai sondaggi, dopo un po’), lasciando sul tavolo della pace finale gli spiccioli per il disturbo. Lo hanno fatto anche in Siria, lo stanno facendo ancora oggi. Non sarà leale, ma non deve stupire: la geopolitica non si basa sulla fedeltà, ma sull’opportunità. In mezzo, come spesso accade, un’inutile Europa. E uso quell’aggettivo non per disprezzo, bensì perché non essendo dotata di un esercito comune che possa operare attraverso la deterrenza militare conta poco o nulla, essendo poi politicamente divisa in mille interessi contrapposti.
Pensate che la bocciatura della candidata di Macron al ruolo di Commissario al mercato interno – con deleghe pesanti come la difesa e l’aerospaziale – sia capitata per caso? E proprio in queste ore, talmente netta da far andare su tutte le furie l’inquilino dell’Eliseo e aprendo all’ipotesi di vendetta tedesca per la bocciatura di Weber? E, sempre causalmente, pensate che sia un caso il fatto che giovedì il Financial Times pubblicasse la prova provata della ribellione in seno all’ultimo board contro la decisione di Mario Draghi di far ripartire comunque il Qe e abbassare ulteriormente in negativo i tassi dei depositi? Nulla o quasi succede per caso. L’Europa tace, quindi.
E tace soprattutto la Germania, vittima di uno strano attentato nel giorno dello Yom Kippur. E perché tace Berlino, forse per l’enorme comunità turca che ospita nei suoi Lander? Anche, ovviamente. Ma soprattutto per questo: in un momento pre-recessivo come quello attuale e con prospettive decisamente fosche da qui a fine anno, se per caso Donald Trump facesse seguito alla sua minaccia di distruzione totale dell’economia turca, in caso Ankara esagerasse nella sua foga di vendetta sui curdi, per la Germania sarebbero davvero guai. Ma guai grossi.
Certo, a livello ufficiale e in favore di telecamera fioccheranno le dichiarazioni strappalacrime e di risoluta condanna, ma, alla fine, Recep Erdogan farà quello che vuole fare. Perché se Berlino rischia la ghirba della sua economia, l’Italia rischia un’ondata migratoria che manderebbe il governo Conte-bis a zampe all’aria nell’arco di un secondo. Quando ci si mette in condizione di essere ricattabili, queste sono le conseguenze. Perché non puoi aprire un negoziato formale che apra le porte europee alla Turchia e poi lasciarlo a bagnomaria perenne, pensando che Ankara nel frattempo non si sia ingolosita con le prebende che quell’annessione le garantirebbe: poi, alla prima occasione, presenta il conto. Salato.
Capite, alla luce di questo, perché facevo bene a essere terrorizzato dalla prospettiva di Luigi Di Maio alla Farnesina? Qual è stato, infatti, l’unico Paese che ha già convocato ufficialmente l’ambasciatore turco per protesta, ricevendo in tutta risposta la conferma della “delusione” di Ankara per questo atto formale? Ovviamente noi, campioni del mondo di dilettantismo e autolesionismo. Nessun altro, tutti attendono. Come diplomazia e buon senso impongono in situazioni simili. Signori, sono solo interessi, è solo politica del ricatto ai più alti livelli. E state certi che, se lo Stato Islamico avesse accettato di spartirsi pacificamente il nord della Siria, i curdi si sarebbero seduti al tavolo cinque minuti dopo per trattare la nascita del loro Stato autonomo, invece che imbracciare i mitra a Kobane e dintorni. Lo hanno sempre fatto, parla la storia. In compenso, una bella guerra dai toni prettamente social e umanitari, è quello che ci vuole per evitare che le opinioni pubbliche si facciano troppe domande.
E questo deve preoccupare, perché se l’impeachment di Donald Trump viene ritenuto già ora una cortina fumogena non sufficientemente efficace, significa che la magnitudo del Lehman moment potenzialmente in arrivo sarà davvero di quelle senza precedenti. D’altronde, sentiamo banche parlare quotidianamente e con assoluta franchezza di tagli occupazionali record, di interessi negativi da applicare ai conti, di tassazione sui prelievi, di lotta al contante. Di fatto, controlli di capitale mascherati. In arrivo, con accelerazione sempre maggiore. E sapete perché sono convinto che, come nel film Wag the dog, servano colonne di profughi in fuga, con donne, vecchi e bambini in bella vista? Per questo: ovvero, anche la pantomima della guerra commerciale fra Usa e Cina è arrivata al capolinea. Soprattutto, sta per finire il suo effetto flip-flop da continui acquisti sui minimi e short squeezes epocali per gli indici azionari, i quali infatti – almeno negli Usa – continuano a rimanere a ridosso dei massimi record, nonostante un grado di instabilità politica globale mai registrato dal Secondo Dopoguerra.
Non solo il prezzo della carne di maiale in Cina ha raggiunto livelli mai registrati (e ormai poco sopportabili, a fronte del potere di acquisto delle classi medio-basse con in tasca una valuta obbligatoriamente svalutata), ma stando a dati ufficiali, nella settimana terminata il 3 ottobre scorso, le importazioni di carne suina statunitense in Cina hanno toccato 142.200 tonnellate metriche, sette volte rispetto alle 19.900 dell’intero mese di settembre. In una sola settimana. La situazione, aggravata dalla crisi di Hong Kong, in Cina stava precipitando: e voi, in caso foste alla vigilia di una catastrofe, andreste da quello che è percepito come il vostro peggior nemico a chiedere aiuto? E quest’ultimo, soprattutto, pensate che ve lo offrirebbe così, senza contropartite?
Dai, non prendiamoci in giro: finché le sanzioni hanno funzionato, soprattutto per colpire indirettamente la Germania, tutto è andato bene. Ora che un’eventuale escalation avrebbe fatto male davvero a Usa e Cina, si arriverà a un accordo. O, quantomeno, una tregua. A livello ufficiale, perché questa dinamica di import/export ci dice che a livello ufficioso è già grandemente in atto. Con somma gioia dei consumatori cinesi e anche dei produttori americani, per la stragrande maggioranza elettori di Donald Trump. E nel novembre 2020, negli Usa si torna al voto.
Signori, siamo all’apice della grande destabilizzazione di massa, perché in contemporanea sta arrivando il redde rationem finale dell’indigestione di debito degli ultimi anni. E prima di piangere (giustamente, a livello umano) per il popolo curdo, tenete qualche lacrima per il vostro conto corrente. Sia esso colpito da tasse dirette o indirette, perdite su azioni o obbligazioni: il cameriere sta arrivando al tavolo, il conto è da saldare. Ed è salato. La questione siriana, di fatto, altro non è che un’avvenente bionda che vi hanno fatto sedere accanto, sbattendo le ciglia, per distrarvi e non farvi pesare troppo la fucilata che sta per bucare la vostra carta di credito.