Forse, è il caso di diventare grandi. Di smetterla con le pantomime da salvatori improvvisati della Patria, da costruttori di barricate con i mobili altrui, per dirla con Ennio Flaiano. È giunta l’ora, temo, di prendere atto che quello che stiamo vivendo è un colossale rimescolamento degli equilibri a livello globale. Un 1992 mondiale. Ma qui non sono in ballo le sorti del Bel Paese, le sue risorse, la fine della Prima Repubblica, la riunione sul Britannia: qui si decide se e come il sistema sopravviverà ai suoi eccessi. E a se stesso, ontologicamente in perenne equilibrio precario. E, ancora una volta, temo che non tutti sopravviveranno. In condizioni simili, qualcuno tende a essere sacrificato sull’altare del Bene superiore. Chiamatela, se volete, ragion di Stato. Ma uno Stato senza confini, né bandiera, né capitale: lo Stato è il Matrix in cui viviamo, piaccia o meno.



Come ripeto sempre, ci sono tre alternative: accettare lo status quo, cercando di migliorarlo dall’interno; tentare la rivoluzione; ritirarsi in un eremo in montagna a meditare. Votare i 5 Stelle, tanto per capirci, non è un’alternativa credibile. L’altro giorno abbiamo assistito a scene abbastanza ignobili alla Camera, riguardo all’annosa e ormai un po’ farsesca questione del Mes. Sono volate accuse pesanti di tradimento dell’interesse nazionale, sono stati evocati tribunali e patrie galere. Io non so se il governo Conte abbia preso accordi con l’Europa in tal senso, bypassando il Parlamento. E, francamente, poco mi interessa. Perché poco cambia, alla prova dei fatti.



Pensate che in una situazione come quella attuale, certi poteri ti permettano alzate d’ingegno a fini elettorali? Il solo aver fatto balenare la falsa minaccia di uscire dall’euro, portò in dote a Silvio Berlusconi la crisi dello spread del 2011. E la fine, di fatto, della sua carriera politica di primo piano. Pochi mesi, una letterina della Bce con molti padri e altrettanti cavalli di Troia, differenziale alle stelle e il gioco è stato fatto. Rapido e indolore. E all’epoca, il mondo era ancora traumatizzato dal 2008 e dalla crisi Lehman Brothers: oggi, se dovesse arrivare un nuovo terremoto sui mercati, si paleserebbe di fronte a un mondo, inteso come opinione pubblica, che fino a sei mesi fa era imbevuto e intontito di retorica rispetto alla ripresa globale e alle magnifiche sorti e progressive. In Europa grazie al Qe, in America grazie a Trump, in Cina grazie alla crescita infinita: tutte balle, l’unica cosa a essere cresciuta è il debito. E oggi, il conto sta per arrivare a tavola. E nemmeno appoggiato su un piattino d’argento e accostatoci con gentilezza dal cameriere: gettato in faccia, tanto per far capire che o si paga o finisce male.



Ancora l’altro ieri, nel saloon da Far West della Camera, volavano alte le accuse dei sovranisti: il Mes serve solo a far pagare all’Italia il salvataggio delle banche tedesche e francesi! Balle. E non perché non siano in crisi, ma perché la situazione è di gravità ben peggiore di quanto non sia percepito all’esterno, collettivamente parlando. A ogni latitudine continentale. Talmente grave da rendere ridicola l’idea che sia il contributo italiano al Fondo salva-Stati a tappare le falle. Sapete cosa accadeva in pressoché perfetta contemporanea con la gazzarra romana? Bloomberg ufficializzava una voce che circolava fin dalla tarda mattinata: Deutsche Bank aveva venduto securities per un valore nozionale di 50 miliardi di dollari a Goldman Sachs, in ossequio al piano di eliminazione dal bilancio – attraverso la bad bank – degli assets più a rischio e indesiderati . Questo grafico mostra il piano di dimagrimento imposto nel luglio scorso da Christian Sewing, Ceo di Deutsche Bank e artefice dell’operazione di svendita selvaggia. E non è la prima volta che Goldman Sachs corre in soccorso di Deutsche Bank e della sua necessità di scaricare posizioni scomode: lo scorso settembre, infatti, la banca d’affari aveva acquistato la porzione asiatica di un portafoglio di derivati equity del colosso tedesco.

All’epoca, anche Barclays e Morgan Stanley acquisirono una parte dello stock messo in vendita, mentre Bnp Paribas aveva appena acquistato l’intero ramo di investimento dedicato agli hedge funds. Desk completo, compresi 600 dipendenti. Stando alle poche informazioni filtrate, gli assets comprati da Goldman sarebbe legati a debito dei mercati emergenti e prima della cessione erano parcheggiati appunto nella cosiddetta wind-down unit di Deutsche Bank, la bad bank che ormai capitalizza 5 volte la casamadre.

Nemmeno a dirlo, appena confermata la notizia il titolo dell’istituto teutonico ha guadagnato il 2% e sospinto l’intero comparto bancario dell’EuroStoxx verso un rinvigorente +5%. Tanto più che il deal appena concluso rendeva più probabile l’obiettivo prefissatosi da Sewing, ovvero abbattere l’esposizione alla leva della bad bank a 119 miliardi di euro entro fine anno dai 177 miliardi di fine settembre. Una montagna da scalare ma, quantomeno, il primo campo base è stato raggiunto.

Ora, le criticità. Ovvero, i dati che dovrebbero farci aprire gli occhi e opporre una fragorosa risata di fronte agli alti lai relativi al salvataggio delle banche tedesche tramite il Mes. Per Goldman, l’acquisizione non rappresenta affatto un cosiddetto profit driver: piuttosto, si tratta di una mossa strategica ed espansionistica che trae beneficio indiretto dalla ritirata giocoforza di un competitor. Si acquisisce una quota di mercato e si lucida un po’ la targhetta con il proprio nome, ma, al netto dei risultati del terzo trimestre del trading desk di Deutsche Bank sui mercati emergenti, c’è poco da mungere. Almeno nell’immediato. E qui, un paio di interrogativi che è meglio vi poniate seriamente. Primo, qual è l’unica cosa che conta nell’intera vicenda? Semplice, ciò che non sappiamo. Ovvero, quanto l’operazione vada a incidere realmente nella volontà di Deutsche Bank di ridurre la sua esposizioni e lo stock di assets a rischio in carico alla bad bank. E, contestualmente, quanto Goldman abbia pagato davvero per quel portfolio.

Già, perché noi conosciamo il valore nozionale dell’operazione, ovvero l’iscrizione a bilancio di quelle securities nei conti di Deutsche Bank, quanto le valutava. Ma non sappiamo quanto Goldman abbia sborsato, ovvero quanto sconto sia riuscita a strappare a un competitor disperato: 80 sul dollaro? Forse 70? O magari, addirittura 60 centesimi sul dollaro? Tradotto: quel nozionale da 50 miliardi, Deutsche l’ha svenduto a 30-35 miliardi o anche meno, in ossequio alla logica del “pochi, maledetti e subito” e della disperata corso contro il tempo che sta compiendo? Perché signori, già sbarazzarsi in blocco di 50 miliardi di securities tradisce una debolezza e una necessità di incamerare liquidità molto alta, ma farlo rimettendoci un 30% – o magari di più – prospetta davanti agli occhi di chi conosce un po’ il mercato l’immagine della sabbia che sta terminando all’interno della clessidra. E per chi di voi ha visto il film Margin call, scordatevi che quanto posto in essere da Deutsche sia stato un trucco da fire sale, ovvero una svendita travestita da occasione d’oro per la controparte e che invece nasconde la necessità di vendere ancora a un minimo di valore ciò che, in realtà, al mark-to-market già non ne presenta quasi più. Goldman non si fa fregare. E Deutsche non è nella condizioni di rifilare fregature a un soggetto finanziario simile: fallirebbe in una settimana, perché le controparti comincerebbe a lavorare solo per tamponare i rischi di controparte più grandi, salvo poi affondarti. Anche solo per vendetta.

Secondo interrogativo: in un contesto simile, pensate che a Bruxelles o a Berlino qualcuno davvero sia così idiota da aver preparato una strategia di medio termine per incastrare l’Italia con la riforma del Mes, al fine di garantirsi il salvataggio delle proprie banche? Signori, i 50 miliardi che Goldman ha tirato fuori senza battere ciglio – fossero anche 35 o 30 reali – rappresentano almeno 3 anni di contributi italiani al Fondo salva-Stati: pensate che Deutsche Bank abbia tutto questo tempo residuo? Pensate che possa permettersi le ratifiche degli Stati membri e l’implementazione del fondo comune di garanzia e tutela bancaria, prima di fare la fine di Lehman Brothers? Venderebbe assets per decine di miliardi e cederebbe il suo ramo trading più fruttuoso a prezzo di saldo, se non sapesse che a rischio c’è addirittura la possibilità di vedere l’arrivo della prossima primavera con delle filiali ancora aperte e sotto l’insegna col nome originario? Non so se è chiaro, ma il salvataggio di Deutsche Bank è una questione globale, poiché mondiale è il rischio di controparte che grava sui miliardi di derivati in essere che sono generati o vedono come sottoscrittore il colosso tedesco.

Non so se è chiaro, ma Deutsche Bank e la sua sopravvivenza, quantomeno fino a quando saranno disinnescate le mine più pericolose, rappresenta uno dei motivi – se non quello principale – del precipitoso, improvviso ed emergenziale ritorno in campo della Fed dopo dieci anni di stop agli acquisti diretti. Chi pensate che ci sia fra i beneficiari principali delle aste repo e term che garantiscono la liquidità necessaria alla sopravvivenza day-by-day, se non l’unità statunitense di Deutsche Bank? Lo conferma questo grafico, su dati ufficiali proprio della Fed ed elaborazione del Financial Times.

Pensate ancora e davvero che il Mes, per astruso e burocratese che sia, abbia come scopo principale quello di salvare Deutsche Bank, al netto di quanto sta accadendo? E poi, se sono le banche francesi le altre beneficiarie della tagliola che l’Europa vorrebbe imporci, come si concilia questo piano malefico con il fatto che le clausole legate a un’eventuale ristrutturazione del nostro debito imporrebbero haircuts sui nostri titoli di Stato, visto che gli istituti d’Oltralpe ne hanno in pancia per 285,5 miliardi di euro, terzi detentori dopo sistema bancario italiano e Bce? Strano modo per salvarle, quello di imporre un taglio netto sui rendimenti dei Btp che hanno contabilizzato a bilancio, non vi pare?

Non fatevi prendere per i fondelli, comunque la pensiate sull’Europa o sul Mes o sulle banche. Siamo nel mezzo di una rivoluzione silenziosa e pericolosa, di uno stravolgimento epocale che impone alleanze e bocconi da ingoiare. In cambio, potremmo ottenere il bene supremo: la sopravvivenza. Dalla quale, a differenza della “bella morte” che alcuni vorrebbero imporvi sulle barricate sovraniste, si può ripartire. Acciaccati e impoveriti, magari. Addirittura dovendo spostare un po’ di cumuli di macerie, ma ancora in piedi. Non pensiate che quanto sta accedendo in questo strano Paese, almeno dal marzo del 2018 in poi, sia una pura casualità legata al corso insondabile della politica e delle umane sorti, indipendenti e sovrane. Perché non lo è.