Non so voi, ma io sono più tranquillo. Ora che Forza Italia ha reso nota la sua convinzione rispetto alla presenza di ombre di interessi cinesi dietro quanto accaduto a Kabul, penso che potrò dormire più sereno. Ma si sa, l’indignazione è merce a buon mercato in questo Paese. Va e viene. Chissà poi se in casa forzista avranno anche il tempo di approfondire un altro retroscena, decisamente al centro del dibattito negli stessi Usa in queste ore. A lanciare l’accusa nientemeno che il Wall Street Journal, fonte decisamente poco prona a gentilezze o trattamenti di favore verso Pechino: 23 funzionari statunitensi in servizio all’ambasciata di Kabul avvisarono il Dipartimento di Stato – nella persona del destinatario del cable, il segretario Anthony Blinken – che il ritiro delle truppe americane fissato per il 31 agosto avrebbe potuto dar vita a un potenziale collasso delle forze di sicurezza afghane. Di più, mettendo sull’avviso rispetto ai più che probabili guadagni territoriali che i Talebani avrebbero potuto mettere a segno in quelle condizioni, i funzionari offrirono suggerimenti operativi su come velocizzare la loro evacuazione e mitigare l’impatto della crisi. Era il 13 luglio. Un cable classificato che Anthony Blinken ricevette, di cui prese visione e riguardo al quale discusse. Non si sa se anche con il presidente Biden direttamente, di certo con il suo staff.
Chissà come la pensano dalle parti di Forza Italia al riguardo? Perché se è vero come è vero che la Cina ha interessi in Afghanistan, tanto da aver fatto ricevere con tutti gli onori una delegazione talebana dal suo ministro degli Esteri a metà luglio (lo scoop di Antonio Tajani e de Il Giornale equivale quindi alla scoperta dell’acqua calda), forse l’atteggiamento della Casa Bianca – sbugiardato dal Wall Street Journal – appare quantomeno degno di approfondimento. Sindrome di Stoccolma, forse? O forse doppiogiochismo? Brutta cosa la memoria, lo so. È come quei taglietti sulla lingua: innocui ma fastidiosissimi. E duri a passare, perché li si tortura continuamente.
Signori, aprite bene gli occhi perché è in atto un’operazione di ribaltamento di ruoli e responsabilità al livello massimo. L’indignazione verso gli Usa per quanto deciso in Afghanistan, infatti, è durata un giorno sui nostri giornali e nei tg. Ora tutto è incentrato su un’iconografia neo-realistica degna della Liberazione: da un lato i VoPos in versione talebana che invece di controllare il Muro a schioppettate, presidiano la rete di sicurezza dell’aeroporto di Kabul. Dall’altra, i soldati alleati che come nella Berlino post-bellica aiutano eroicamente a fuggire dal terrore. Lo stesso reso possibile dalla decisione del loro governo di rompere le righe e andarsene, tra l’altro. Guardate le prime pagine di oggi: sono tutte uguali, tutte hanno le medesime immagini. La giovane promessa del calcio che cade dal carrello dell’aereo cui si era aggrappato per scappare e le madri che lanciano i figli oltre al muro, chiedendo ai soldati Usa di portarli con loro. Verso la libertà. Manca la regia di Steven Spielberg e il gioco è fatto.
Il giorno prima, invece? Tutti a pubblicare la foto del cargo militare Usa, il cui eroico pilota ha sfidato le leggi della fisica e del sovraccarico per portare in salvo più afghani possibili. Sempre gli stessi che il suo governo ha abbandonato ai talebani, pochi giorni prima. Preparatevi, perché Netflix ci regalerà una versione afghana di Schindler’s list prima di Natale, sono quasi certo. Tutto scordato per la stampa, l’America è tornata faro di libertà del mondo nell’arco di 24 ore. Il periodo di penitenza più breve della storia. Ora fioccano le storie strappalacrime e le sparatorie sulla folla da parte dei talebani, di fatto versioni barbute di Piazza Tienanmen: perché è lì che i media vogliono arrivare, quello è il punto finale del processo in atto. E l’uscita di Forza Italia, per quanto totalmente irrilevante, ne è la conferma.
Zio Sam ha detto che il suo periodo di cenere cosparsa sul capo è stato sufficiente e chiama tutti a fare fronte comune contro Pechino: ovviamente, utilizzando il facile proxy talebano. Prepariamoci, per giorni e giorni vedremo scene fatte con lo stampino di afghani che si arrampicano su scale di fortuna per superare il muro che divide l’Impero del male dal Mondo libero: siamo nel 2021, ma una certa iconografia maccartista non cambia mai. Troppo efficace per abbandonarla. Vedremo a ripetizione foto di soldati Usa con in braccio bambini dagli occhioni languidi o civili stremati che dormono coperti dalla giacca della mimetica ceduta dall’eroico soldato di turno per ripararli dal freddo della notte afghana. Non manca molto – lo dico ai cultori del genere – prima che Rete4 mandi a ciclo continuo Rambo 3, quello in cui il nostro eroe si unisce ai mujaheddin afghani che combattono contro i sovietici, comunisti e cattivi. In nome della libertà. Salvo poi dover inventarsi che il Frankenstein dell’Asia centrale si è ribellato e ha abbattuto due Torri, quindi va punito. E se vi sembra forzato, ricordatevi sempre che la schermata finale di Rambo 3 terminava con la dedica della pellicola Al valoroso popolo afghano. La censura post-11 settembre fece togliere quel frame.
Un copione stinto, quello che stiamo vivendo. Eppure, già in atto. E tutto questo non perché mi prema difendere la Cina o, men che meno, i talebani. Bensì per amore di verità. Quello che sta accadendo equivale a quanto accadrà sul mercato azionario: quando esploderà la bolla, tutti punteranno il dito contro l’ago che ha causato il botto. Ma il problema è stato far espandere la bolla, non la natura della punta che ha posto termine alla sua dilatazione irresponsabile. La melassa retorica che sta arrivando a vagonate dall’Afghanistan, poi, ha anche una ragione più seria e sistemica del mero e gratuito servilismo che alberga in molti settori mediatici verso l’amministrazione Usa: nascondere il messaggio devastante che la scelta di Biden ha rappresentato per altri due nodi cardine della geopolitica mondiale. Ovvero, Hong Kong e Taiwan.
Se l’atteggiamento degli Stati Uniti, dopo mesi e mesi, addirittura anni di corteggiamento a colpi di dichiarazioni di amore eterno e difesa dei valori comuni, si sostanzia in una fuga come quella da Kabul e Jalalabad, cosa accadrà agli oppositori del regime cinese in seno all’ex colonia britannica o al principale produttore di microchip al mondo? Eh già. Perché – chissà come mai – nel pieno del caos afghano, tre senatori democratici Usa hanno preso carta e penna e trovato il tempo di chiedere alle autorità di Taiwan di aiutare il settore automotive statunitense, fornendo i circuiti integrati e i semi-conduttori necessari al comparto. Lo scrive la Reuters, non l’agenzia Xinhua. Perché la questione si sta facendo seria. Talmente seria da avere già obbligato Toyota a tagliare del 40% – da 900.000 a 500.000 unità – la produzione prevista in patria e nelle fabbriche estere per settembre. Lo stesso vale per Volkswagen. E anche per Ford e General Motors, tanto da aver appunto fatto scomodare i senatori Gary Peters, Debbie Stabenow e Sherrod Brown.
E il fatto che i giornali di tutto il mondo siano pieni di foto dei soldati Usa che salvano bambini e fanno scappare profughi, invece che di resoconti come quello del Wall Street Journal rispetto alle responsabilità dell’Amministrazione Biden nel ritorno al potere dei talebani, aiuta a non perdere del tutto la credibilità. Anche perché, dall’altra parte non hanno l’anello al naso. Xi Jinping ha appena lanciato la sua campagna per una politica redistributiva, di fatto mettendo nel mirino i nuovi ricchi del Paese in nome di una maggiore giustizia sociale: detto fatto, i titoli europei del lusso sono crollati in Borsa. Dopo le mazzate al comparto tech, Pechino sta dimostrando di poter comandare il mercato a suo piacimento. A colpi di restrizioni e regolamentazioni. E anche in tal senso, evitiamo di fare le verginelle: se la Cina sta al libero mercato come il giorno alla notte, dall’altra parte abbiamo una Wall Street che da dieci anni campa unicamente con i tassi a zero, i buybacks da essi finanziati e i soldi a pioggia garantiti dagli acquisti della Fed.
E il 17 agosto scorso, proprio nel pieno del collasso afghano, l’Esercito di Liberazione Popolare cinese ha condotto un’esercitazione di assalto con caccia, aerei anti-sommergbili e flotta navale al largo di Taiwan come risposta a interferenze esterne e ripetute provocazioni e violazioni compiute da Taipei e Usa nello Stretto. Casualmente, il 4 agosto scorso il Dipartimento di Stato Usa, lo stesso che ha ignorato il cable dei suoi funzionari di stanza a Kabul, ha approvato la vendita di armi per 750 milioni di dollari proprio al governo di Taiwan. Meglio parlare d’altro, insomma. Meglio parlare degli eroici soldati e del Muro di Kabul.
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