La “notizia” finanziaria di ieri è uscita in mattinata quando è stato pubblicato il dato sulla fiducia delle imprese in Europa. Il dato è stato molto sotto le attese sia in Germania che in Francia, e di rimando in tutta l’Eurozona, e ha fatto segnare un calo rispetto a quello del mese precedente, che è stato subito interpretato con preoccupazione in particolare per le prospettive di crescita dell’Unione europea. Sono stati questi dati a determinare il ribasso dei mercati azionari europei e, contemporaneamente, un calo dell’euro contro il dollaro sceso sotto 1.18. Nella stessa giornata di ieri uscivano gli indici corrispettivi negli Stati Uniti e in Inghilterra. Il dato americano è stato sopra le attese ai massimi da gennaio 2019 e quello inglese, sempre sopra le attese, ai massimi degli ultimi 30 mesi.
È troppo presto per tirare conclusioni sulla “ripresa” delle macro-aree globali, ma al momento la sfiducia su quella europea sembra lo scenario più condiviso. Esattamente come, per la cronaca, dopo la crisi finanziaria del 2008.
L’altro “dato” della giornata di ieri è l’aumento dello spread tra titoli di stato italiano e tedeschi e il rialzo del rendimento del decennale italiano. Niente di drammatico, ma è chiaro cosa pensino “i mercati” quando incominciano a preoccuparsi dell’Europa. Niente di nuovo sotto il sole da dodici anni a questa parte: quando c’è una recessione globale l’Europa fa peggio delle altre macro-aree globali e la performance dei suoi Paesi periferici e secondari, tra cui l’Italia completamente scomparsa da qualsiasi tavolo che conta, si divarica dal centro aprendo inquietanti interrogativi per tutti.
L’area monetaria dell’euro ha alcuni problemi strutturali. Uno è un’oggettiva difficoltà a “coordinare” Paesi membri diversi con deficit commerciali intraeuropei completamente fuori scala senza alcuna flessibilità valutaria e che hanno un unico esito possibile: la desertificazione della periferia e degli Stati finanziariamente deboli. Il secondo è che l’euro è un’area che avrebbe scommesso tutto sulle esportazioni e sull’irresponsabilità dei consumatori altrui in un mondo in guerra commerciale e con una valuta in rialzo e palesemente insostenibile per i Paesi più deboli. In questo quadro ci guadagnano, nel lungo termine, solo alcuni. Scriviamo cose che vengono pubblicate e di cui si discute amabilmente da anni sui principali organi di informazione internazionali da George Soros in giù. Tutti elementi che fanno parte di un dibattito “normale” sull’Eurozona almeno dal 2012. Per i più attenti dal 2009 e per quelli davvero bravi dalla metà degli anni ’90.
Anche dopo questa crisi è stato fatto il minimo possibile per salvare l’euro; la differenza con le crisi precedenti è che il minimo necessario a salvare l’euro è molto più grande e sarà sempre più grande perché i problemi strutturali dell’area rimangono completamente irrisolti. Così come rimangono irrisolti i problemi dei Paesi che non si possono più permettere una valuta così forte e continuano a indebitarsi in una valuta estera che non si possono permettere per mantenere uno stile di vita che non si possono permettere. Più debito in euro non è una soluzione, ma un mostro che prima o poi presenterà un conto astronomico o in termini politici e geopolitici o in termini finanziari o tutti e due.
Tirare un altro calcio al barattolo dei problemi facendo altro debito in una valuta straniera, con gli Stati Uniti d’Europa che non si vedono neanche con il binocolo, non è una soluzione. Lo sanno tutti e ce lo hanno spiegato ancora una volta i mercati ieri che per ora fanno solo finta di non vedere il problema. Nel frattempo registrano le performance inglese e americane. Certo irresponsabili e drogate dal debito esattamente com’è irresponsabile e drogata dal debito la non risposta europea.