Cominciamo con il mettere dai puntini sulle i grossi come grattacieli. Non è la Russia ad aver bloccato il transito di gas verso l’Europa Centrale. Bensì l’Ucraina a non aver voluto rinnovare il contratto scaduto il 31 dicembre.
Legittimo, per carità. Ma resta il fatto incontrovertibile che sia Volodymir Zelensky a chiudere il rubinetto e non Vladimir Putin. Ma tranquilli, l’Unione europea ha detto che l’impatto sarà limitato. Che esistono già varie alternative.
Vi interessa sapere quali? Ce le mostra questo primo grafico. Di fatto, gli Usa. Perché difficilmente il Qatar sarà particolarmente prono a favori energetici all’Unione europea alla luce dello scandalo del Qatargate, ovviamente terminato in un colossale nulla. Il cui potenziale mandante occulto e certo vincitore e beneficiario, però, sembra abbastanza evidente, se guardiamo questa grafica alla luce degli accadimenti di questi giorni. Elimina i concorrenti e sei certo di vincere facile. Insomma, auguroni.
In compenso, dal 1 gennaio, la Russia ha minacciato di bloccare il flusso di gas verso la Moldavia. Causa? Forniture non pagate a Gazprom. L’altra faccia delle sanzioni, cari lettori. Mosca non incassa, stante i divieti e le esclusioni dai sistemi di pagamento. Ma i clienti non ricevono più il gas. Chissà cosa ne penserà il nuovo commissario agli Affari economici, Valdis Dombrovskis, il quale in un’intervista natalizia si è detto favorevole all’ipotesi di congelamento di assets anche della Banca centrale russa. Eppure, quanto accaduto a cavallo fra la fine e l’inizio dell’anno dovrebbe davvero far riflettere. E non solo con lo sguardo obnubilato da un strabismo ideologico che dipinge l’ultimo giorno di operatività del contratto di transito del gas russo verso l’Europa Centrale via Ucraina come l’ennesimo atto di guerra del Cremlino verso l’Ue. Anche alla luce di quanto ci mostra il grafico.
Congelamento e sequestro di assets russi, infatti, sono coincisi con l’inizio di uno switch out delle Banche centrali dei mercati emergenti dal debito Usa e in favore dell’oro. Insomma, al netto delle mere coincidenze che sono sempre dietro l’angolo, il rally aureo delle scorse settimane potrebbe aver avuto fra i suoi driver una reazione geopolitica. E, sempre casualmente, in pieno fermento post-forum annuale dei Brics, dove si è parlato – e non poco – di nuovi panieri valutari e nuovi benchmark commerciali che bypassassero il dollaro.
Ora date un’occhiata a quest’altro grafico. Il quale sembra clamorosamente smentire la tesi della de-dollarizzazione come trend ormai irreversibile.
Il biglietto verde è infatti denominatore del 49,1% dei pagamenti globali. In aumento. Ma da quando? E a scapito di chi? L’euro ha forse imboccato una strada di irrilevanza, contestualmente proprio all’implementazione del regime sanzionatorio verso la Russia? Il quale, giova ricordarlo, ha operativamente riguardato più l’Unione europea che gli Usa. I quali lo hanno imposto anche attraverso la moral suasion della Nato – il cui quartier generale a Bruxelles dista pochi chilometri in linea d’aria dal Palazzo dell’Ue e ancora meno in linea di sudditanza -, ma si sono ben guardati dall’andare oltre mosse più che simboliche come l’estromissione da Swift. O le minacce di default su debito estero, prontamente annunciate a mezzo stampa ma mai messe in pratica, quando occorreva avere il coraggio di creare il precedente, attivando le clausole dei credit default swaps. L’Europa invece ha dato vita a 17 pacchetti sanzionatori. E operato da garante in sede di G7 del primo congelamento dei profitti di assets russi sequestrati. I quali, infatti, vengono gestiti dalla Commissione.
L’euro certamente non ne ha beneficiato. Il dollaro, eccome. E mentre i Brics vanno per la loro strada, l’Europa ancora una volta si presta a cavia dello stress test. Se per caso davvero si passasse all’extrema ratio di blocco e congelamento di beni della Banca centrale, penso che la Bce dovrebbe preventivare una ritorsione che vada al di là della passiva osservazione dell’ennesimo atto autolesionistico.
Crisi industriale in atto e una valuta sempre meno benchmark a livello di commercio globale, oltretutto in vista di una guerra di dazi e sanzioni che ci riporterà nella condizione di vaso di coccio tra vasi di ferro. Non a caso, Cina e Usa attendono lungo la sponda del fiume. E l’unica reazione che pare arrivare da Bruxelles è quella di un silenzio tombale, quasi si stesse attendendo l’ineluttabile. O la finalità inconfessabile di un’agenda parallela e nascosta?
Nel frattempo, la cortina fumogena politicamente corretta di una guerra contro l’Ungheria che puzza di ennesimo, patetico proxy russofobico lontano un miglio.
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