Si può credere a tutto nella vita. Il rasoio di Occam in tal senso offre anche uno straordinario appiglio di realismo da contrapporre al cosiddetto complottismo. Ma quando troppi puntini appaiono talmente ravvicinati da mostrare il profilo della figura misteriosa senza che nemmeno ci sia bisogno di unirli con un tratto di penna, allora la prospettiva cambia. E negare l’evidenza è spesso sintomo di complicità.
Prendiamo il Qatargate: a fronte di una prospettata Spectre di corruzione che avrebbe dovuto far crollare dalle fondamenta l’intero Europarlamento e la sua residua credibilità, oggi si scopre che Antonio Panzeri se la caverà con un annetto di carcere, visto che ha deciso di collaborare. Fine dello scandalo. Tanto più che l’unico nome finora emerso dalle confessioni del grande pentito era già noto. Una Spectre di 6 persone. Sei. Fra cui due senza alcun ruolo politico, semplici congiunte. Il compagno Greganti, più che indignarsi, si farebbe una risata.
In compenso, la lotta alla mafia è tornata di grandissima attualità. E in contemporanea con le ultime puntate della fiction Rai sul Generale Dalla Chiesa, quelle appunto sul tragico epilogo palermitano dopo i successi contro le Brigate Rosse. Al netto di tutti i particolari finora emersi sulla latitanza, di per sé talmente farseschi da sembrare un film, giova soffermarci su un particolare. Clinico. I medici intervistati dai vari quotidiani riguardo la patologia oncologica che il boss latitante si stava curando en plein air in una clinica privata, fra selfie e olio di oliva regalato agli infermieri, lasciano intendere come la gravità sia tale da poter decretare che Matteo Messina Denaro potrebbe aver appena festeggiato il suo ultimo Natale. Insomma, abbiamo catturato un dead man walking. Parlerà sulla sua latitanza e sui segreti di Stato o sull’agenda rossa di Borsellino? Difficile. Probabilmente, chiuderà gli occhi prima. E tutto finirà in gloria. In compenso, Borsa e spread festeggiano rumors in base ai quali la Bce si fermerà con i rialzi dei tassi già dopo il board di febbraio. Eppure, l’inflazione resta alta. E Philip Lane, capo economista della stessa Eurotower, non più tardi di lunedì aveva ribadito la necessità di proseguire. Chissà.
In Italia, però, abbiamo alcune certezze, incrollabili: il trend dei prezzi resta a un siderale +11,6% e in dicembre i tassi su mutui e prestiti hanno sfondato quota 3%. Bla bla bla. Parole. Troppe. Anche le mie. Perché alla fine, la realtà sta tutta in questa immagine. Al netto del suo pensionamento definitivo il prossimo 30 giugno, il Libor ha appena sfondato la quota record che toccò prima del crash Lehman.
Insomma, dopo un decennio di Qe in varie forme e un’alluvione combinata di liquidità da Covid, ecco che le banche tornano a guardarsi in cagnesco e chiedere reni e fegati in garanzie per prestarsi soldi l’un l’altra. Nel 2007 il tasso a breve termine arrivò al 4,82%, prima di veder totalmente congelato l’interbancario. Lunedì scorso ha toccato il 4,83%. E come allora, tutto è apparentemente tranquillo. Apparentemente. Da settimane, invece, gli ecoscandagli del mercato cercano iceberg. Basterà una frenata di Fed e Bce per evitare il testacoda? O qualcuno punta deciso a un altro 17 settembre 2019, una bella crisi da liquidità repo che mandi in cantina tutte le remore inflazionistiche e rimetta in moto la stamperia?
Stiamo danzando dentro il cratere di un vulcano, citando Yukio Mishima. E per quanto la lotta alla mafia paia essere tornata l’unica priorità di questo Paese, proprio l’Italia è in prima linea. O, forse, quel ritorno prepotente alla retorica da Commissario Cattani serve proprio a questo, a non farci vedere troppo quanto sta delineandosi. Il silenzioso sì alla ratifica parlamentare del Mes che ci qualifica per l’eventuale accesso al Tpi le distorsioni dei principali gestori dei distributori di carburante accertate dalla Guardia di Finanza e che si uniscono a quelle che hanno spedito alle stelle le bollette energetiche di dicembre, mentre a Roma va in scena il ricatto dello sciopero e la pantomima sulle accise.
Non va affatto tutto bene, signori. E le banche lo sanno. Perché il rumore delle unghie sullo specchio da qualche giorno è stato sostituito da quello dei denti. Prima digrignati e poi sbattuti con forza, esattamente come nelle caricature di certi vecchi film comici in bianco e nero. Davvero Giorgia Meloni martedì ha chiamato Emmanuel Macron per chiedergli coordinamento su immigrazione e Ucraina? E quale urgenza l’avrebbe mai folgorata sulla via di Damasco per dimenticare e archiviare, sic et simpliciter, un esordio nelle relazioni bilaterali degno della guerra dei Roses? O, forse, quella telefonata – quasi certamente stimolata dalla saggezza sempre più preoccupata del Quirinale – è stata resa necessaria da altro? Ovvero, dall’incipiente obbligo di mediazione per cercare di tamponare assieme l’ondata di malcontento che rischia di innescarsi da oggi nelle strade di Parigi e detonare poi in mezzo Continente?
Scommettiamo, in tal senso, che scioperi e cortei – se troppo prolungati o partecipati, stile Gilet gialli – finiranno nel mirino come fomentati e finanziati da Russia e Cina o comunque manovrati da interessi eterodiretti? Al riguardo, vi invito a leggere il commento apparso martedì su Liberation dal titolo molto esemplificativo del clima che già si respira Oltralpe e nell’esecutivo: Blocco, presa d’ostaggi, ostruzionismo: sulla riforma delle pensioni, un ritornello di cui faremmo volentieri a meno. Emmanuel Macron, lo stesso leader con cui Giorgia Meloni ha parlato martedì sera al telefono, sta già ricorrendo al peggior armamentario possibile per delegittimare una protesta che nelle intenzioni dei sindacati sarà senza tregua. E se in Italia il boss dei boss può tranquillamente abitare praticamente a casa sua, andare al bar e in clinica a fare la chemio salutando gli infermieri, ricordiamoci la gestione dell’affaire Bataclan in Francia. Tra ritorni a Molenbeek del capo-commando, fughe negli armadi durante i traslochi e proclamazione dello stato di emergenza già pronto sul tavolo di Jacques Chirac ad assalto ancora in corso.
Lo ripeto, ognuno è libero di credere a ciò che vuole. Per volontà assolutoria, per necessità di sentirsi rassicurato, per convenienza o per convinzione. Ma qui i puntini da unire non appaiono solo troppo vicini, addirittura sembrano già disposti a mosaico. Era abbastanza chiaro che si sarebbe arrivati al punto di non ritorno, al bivio che deve fungere da traumatico raccordo fra anni di narrativa e transizione alla realtà. Oggi siamo molto vicini a quel punto. E se non volete credere alle coincidenze, credete almeno al vecchio, caro Libor in quella che appare la sua ultima missione prima del pensionamento a favore del Sofr.
Com’è possibile che dopo oltre 10 anni di liquidità a pioggia in tutte le forme e indebitamento ormai fuori controllo, pubblico e privato, le banche siano ancora al punto di non fidarsi l’una dell’altra, quando si tratta di prestarsi soldi per 24 ore? Solo questo conta.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI