Un enorme, colossale war game. Pianificato a meraviglia. E con un’unica priorità: garantire all’ennesima, sempre più ipertrofica bolla di sgonfiarsi senza causare troppi danni. E senza dare nell’occhio. E conviene a tutti. Prendiamo la riunione dell’Opec. Nessuna conferenza stampa finale. Una call arrangiata alla bene e meglio. In contemporanea con la notizia dello stanziamento miliardario all’altra bolla, quella ESG, alla COP28. Perché senza un po’ di sostegno, si rischia. Di fatto, tirando una riga, solo ribilanciamento per il 2024. E infatti, il +2% del WTI sull’eco della notizia si è ridimensionato in fretta.
Non a caso, in perfetta contemporanea, gli Usa facevano sapere di aver acquistato 2,73 milioni di barili per rimpinguare le riserve strategiche. Detto fatto, il mercato ha prezzato il nulla di fatto. Proprio sicuri? Attenzione a come valutare quanto sta accadendo.
La tregua a Gaza ormai è l’equivalente delle varianti del Covid: stop-and-go, in base alle esigenze. L’attentato di Hamas a Gerusalemme giovedì non ha sortito reazioni, nonostante i morti e la rivendicazione. I razzi di ieri mattina, sì. Raid aerei immediati. Nuova tensione. E la tensione si prezza. E si incorpora. Negli assets. Nei modelli di VaR. Nei futures. Ovunque. Wall Street brinda a fronte di un Surprise Index da 2008, solo perché ormai il conto alla rovescia verso il primo taglio è iniziato. E guardate questo grafico: dopo il dato sull’inflazione di giovedì, oggi i futures europei prezzano un punto percentuale di taglio pieno già ad aprile 2024.
Tranquilli, si anticiperà. Ora, tutto questo però ha un costo. L’agire sull’esistente in modalità di perenne cortina fumogena, annebbia. Appunto. Mentre l’Arabia Saudita spara la bomba. Ryad sta lavorando a una piattaforma di trading su terre rare, in primis grafite. Di fatto, il principale spacciatore di fossile al mondo, si prepara a diventare il banco del casinò dei materiali base della rivoluzione green. E, soprattutto, del comparto tech globale. E si sa, Wall Street sta in piedi per le cosiddette Magnificient 7, sette titoli del comparto che da soli capitalizzano più del resto dell’intero mercato. Tra una finestra di buyback e l’altra, ovviamente. E se l’Arabia può contare su risorse minerarie (fosfato, rame, litio e oro) ancora vergini e il cui valore è stimato in circa 1,33 trilioni di dollari, chi pensate che sia il vero regista, l’azionista di maggioranza e il principale beneficiario dell’operazione? Forse la Cina?
Ryad sta lavorando al progetto da tre mesi e il vice-ministro dell’Energia, Khalid bin Saleh Al-Mudaifer, ha confermato come una decisione definitiva ne richiederà altri sei. Timing perfetto per diventare oggetto di corteggiamento serrata da parte di un’America in piena campagna elettorale. Sarà rare-dollar o rare-yuan?
Anche perché, come mostra questo altro grafico il momento è delicato. Molto delicato. Soprattutto a livello di narrazione.
Perché si sa, come abbiamo già detto, sul mercato ci sono bolle di tutti i tipi. Ma non tutte sono uguali. Anzi, diciamo che non tutte – scoppiando – fanno lo stesso rumore. E scontano la medesima eco. Perché lo stesso mercato che per anni ha pittato di verde qualsiasi salsiccia di rating, cartolarizzandola e poi spingendola a forza dentro Etf etici quanto l’abbandono di un cane in autostrada, ha già emesso la sua sentenza. Fossile batte Green 4-0. Nei sei mesi terminati lo scorso 27 novembre, infatti, il market value delle aziende Usa quotate sul S&P Global Clean Energy Index è calato del 25%. In contemporanea, i titoli delle compagnie “oil&gas” sono volati. D’altronde, quando il governo parla di ESG in pubblico, ma privatamente ha come priorità quella di far scendere il prezzo del barile sotto gli 80 dollari per acquistare col badile e riempire riserve strategiche ai minimi dal 1981, persino l’opinione pubblica più accondiscendente comincia a porsi qualche domanda.
E attenzione, perché il karma che sovrintende l’abuso di ipocrisia pare aver optato per gli straordinari. Questa immagine, infatti, mostra il colossale collo di bottiglia attualmente in atto nel Canale di Panama a causa delle limitazioni alla navigazione.
Siccità. Entrambi gli ingressi bloccati. Una scena da Autostrada del Sole il 14 agosto. E attenzione, perché a detta di Sveinung Støhle, vice-CEO della compagnia di spedizioni navali greca Angelicoussis Group, ora il rischio è che le deviazioni di massa sulle rotte imposte del blocco a Panama vadano a ripercuotersi direttamente sul Canale di Suez. Di fatto, paralizzando mezzo mondo. A oggi, a Panama transitano solo vascelli di compagnie con il pre-book sugli slots. E in un ideale continuum con il discorso precedente, la vittima prioritaria della situazione sono i tanker che trasportano gas LNG. Prima delle restrizioni, circa 30 al mese. Oggi al massimo 4-5.
A questo punto, c’è da sperare che l’inverno non imponga troppi interventi sugli stoccaggi, stante una re-shoring al contrario dell’Europa. La quale è passata dalla sicura ed economica via pipeline dalla Russia al viaggio degno di Melville del gas liquefatto (e carissimo) dagli Stati Uniti. Ma si sa, c’è bolla e bolla. Come c’è informazione e informazione. E ci sono i soliti fessi a Bruxelles. Ammesso e non concesso che siamo dei fessi, in realtà.
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