Oggi mi permetto di darvi un consiglio di lettura. Grazie al cielo (almeno per quanto mi riguarda), il caldo e l’estate sembrano finalmente alle spalle e arriva la stagione in cui è bello restarsene in casa con un buon libro. Per chi fosse interessato ai temi tanto economici, quanto storici, un’ottima scelta è La Germania di Weimar. Utopia e tragedia di Eric D. Weitz. Parere personale, ovviamente. Mettiamo subito in chiaro alcune cose, tanto per evitare fraintendimenti. Non sono uno di quelli che mette in correlazione diretta l’ascesa dei populismi/sovranismi con quella del Terzo Reich, intesi come reazione dei primi all’austerity e del secondo proprio alla crisi esiziale da iper-inflazione nella Germania post-trattato di Versailles. Occorrono menti raffinate per arrivare a iperboli simili, la mia è molto semplice. Quasi grezza. Lascio ad altri, quindi, gli allarmi anti-fascisti permanenti e gli appelli resistenziali fuori tempo massimo.
C’è dell’altro in quel libro, oltre alla ricostruzione minuziosa e meravigliosamente contestualizzata dello strangolamento di Berlino contenuto nella clausola di colpevolezza che fu inserita punitivamente nell’accordo che pose fine al Primo conflitto mondiale. C’è, ad esempio, il ruolo fondamentale delle banche Usa, del crollo di Wall Street e della crisi del ’29 nella spirale auto-alimentante di indebitamento terminale e suicida di Weimar che spalancò le porte al nazional-socialismo. Ma soprattutto, c’è un’atmosfera sempre più palpabile a ogni pagina. Un’atmosfera che, questa sì, ritrovo nel clima attuale, sempre di più: l’inconsapevolezza delle masse rispetto al processo in atto e alle sue potenziali conseguenze. Per questo vi ho consigliato quel libro, perché è utile per aprire gli occhi. Più di mille cifre, grafici, percentuali, analisi di Borsa e delle curve dei rendimenti.
Perché ora, al netto del risultato delle Regionali che ha rafforzato non poco il Governo, ma soprattutto il ruolo del Pd all’interno dello stesso, e della presa d’atto della Bce della necessità di andare oltre con i programmi di stimolo (ultima trovata, l’inserimento dei green bonds nel collaterale accettato per le operazioni di finanziamento), potremmo vivere tempi relativamente tranquilli. Quantomeno, come percezione filtrata attraverso la chiave di lettura delle aste di Btp. Certo, la variabile del voto Usa di novembre è sempre pronta a innescare scossoni o magari shock, ma l’aria che tira, fra un allarme lockdown e l’altro, è quella di un’Europa ancora talmente indebolita e dalla ripresa “disomogenea, incerta e incompleta”, per usare le parole di Christine Lagarde, da risultare paradossalmente tranquillizzante: bad news are good news, finché ci sono guai strutturali, la Bce avrà un alibi. E i mercati, un alleato. Imbattibile.
Non a caso, forse spinta dalla classica volontà di levarsi i sassolini dalla scarpe in vista dell’ormai prossima scadenza di mandato, ieri Yves Mersch, membro del board dell’Eurotower, ha messo in guardia la Banca centrale rispetto alla sua tentazione di trasferire le deroghe statutarie applicate al Pepp a tutti i suoi programmi di acquisto pre-esistenti: “La Bce deve limitare i suoi poteri emergenziali a crisi temporanee. Altrimenti, il rischio è quello di problemi legali. E questo vale anche per l’eventuale scelta di estendere le prerogative dello schema di acquisti legato alla pandemia a tutti gli altri”. Insomma, un messaggio chiaro. Ma, a mio avviso e almeno nel breve termine, destinato a restare lettera morta.
Gli ultimi sviluppi, paradossalmente, paiono pronosticare calma sotto il cielo. Quindi, maosticamente parlando, tempi pessimi. E pericolosissimi. Perché tendono appunto a far perdere la percezione delle dinamiche in atto. Come ad esempio il Btp trentennale italiano sceso ieri al minimo storico dell’1,75% di rendimento, sintomo di stabilizzazione politico filo-Ue del Governo post-voto (leggi, attivazione del Mes e conseguente, benedetta eterodirezione del programma di riforme) e di attivismo da Banca centrale già prezzato da chi investe. Attenzione, però. Attenzione appunto all’effetto illusione ottica che la monetizzazione artificiale del debito crea di fronte ai nostri occhi. Perché in contemporanea con la performance del nostro trentennale, il Bonos a 50 anni spagnolo ha segnato un rendimento ancora più basso, all’1,325%. Con 20 anni di maturity maggiore. E con Standard&Poor’s che ha appena tagliato a negativo l’outlook della Spagna, stante i dati macro dei primi due trimestri (i peggiori dell’eurozona) e i lockdown già in atto in varie parti del Paese, soprattutto a Madrid dove riguardano una popolazione di 850.000 persone.
Peggio vanno le cose, meglio prezzano i titoli di Stato. Follia, lo capirebbe anche un bambino. È tutto un gioco di specchi, è tutta illusione da stamperia: se la Bce smettesse o rallentasse drasticamente gli acquisti, quei rendimenti svanirebbero come neve al sole. E la realtà economica affiorerebbe come erba sottostante. Madida e un po’ marcia. Ma attenzione, perché la questione è generale. Perché planetaria è la follia della monetizzazione del debito come risposta alla crisi post-globalizzazione in chiave formalmente antitetica alla mitologica austerity. Un’enorme Weimar-in-progress.
Guardate questo grafico, il quale ci mostra come nel primo trimestre di quest’anno il debito a livello globale sia letteralmente esploso: l’indebitamento generale relativo al settore non-finanziario, infatti, oggi equivale al 252% del Pil mondiale. Solo alla fine del 2019 era al 241%, sostanziando quindi il maggiore aumento a livello trimestrale da quando la Banca per i regolamenti internazionali traccia la serie storica.
Un suicidio collettivo a danno delle future generazioni, altro che impegno contro il decremento demografico e lotta al rischio mortale di deflazione, di lost decade: in nome della lotta al Covid e al suo fall-out economico, stiamo caricando le future generazioni di un debito che semplicemente non saranno in grado di onorare. Insomma, il famoso tipping point. E guarda caso, ecco che questo altro grafico mette in evidenza quello che Deutsche Bank nell’ultimo report del suo capo analista, Jim Reid, definisce il demographic trigger, il detonatore demografico. Ovvero, quando il calo della popolazione attiva (15-64 anni) nelle società economiche avanzate è divenuto strutturale e quindi ha sentenziato l’insostenibilità degli stock di debito delle stesse, ecco che magicamente è esploso il Qe globale come risposta alle sfide post-globalismo: non potendo “stampare” neonati che negli anni futuri onoreranno quel debito con le loro tasse, si stampa denaro. La via per il disastro. Anzi, l’autostrada per Weimar 2.0. In totale inconsapevolezza, appunto. Anzi, ebbri della convinzione che questa way of life sia la migliore, visto che contempla come danno collaterale alla beffa di un indebitamento che comunque saremo noi a ripagare (non certo presidenti o banchieri centrali), l’elargizione da helicopter money sotto varie forme (sussidi di disoccupazione, reddito di cittadinanza, welfare emergenziale destinato a divenire strutturale) di una sorta di solidarietà pelosa di sistema.
Ecco cosa deve fare paura del parallelo con Weimar: l’incapacità di leggere la realtà. O, se preferite, il talento faustiano del potere di mostrarci solo il risvolto della stessa maggiormente strumentale ai suoi piani. Ci preparano, anzi stanno già lavorando alacremente “grazie” all’emergenza Covid, un futuro in cui concetti come merito, responsabilità o lo stesso lavoro saranno superficiali, non necessari, quasi antiquariato socio-economico di cui sbarazzarsi il prima possibile. In nome del debito buono, nuovo pericolosissimo concetto, al pari delle droghe cosiddette leggere. Pensate che io esageri? Probabile. Anzi, quasi certo. Ma attenzione a un altro parallelo: anche Paul von Hindenburg il 29 gennaio del 1933 pensava che Adolf Hitler si sarebbe accontentato della Cancelleria, rinunciando alle mire dittatoriali e totalitariste del nuovo Reich. E lo nominò, benedicendone il giuramento tenuto il giorno successivo, certo di una sua normalizzazione in seno al potere e all’istituzione. Così non fu.
Pensate davvero che il Sistema, quello reale, il potere vero, si accontenterà per sempre del do ut des fra elargizione di sussidi al 99% della società in cambio dell’accettazione da parte della stessa di un regime di indebitamento strutturale che fa viaggiare i corsi azionari e garantisce dividendi? O, forse, ottenuto il risultato di un esercito di schiavi totalmente dipendenti e clientelari, chiederà – anzi, imporrà – di più?