Quando si ignora un dato, spesso e volentieri lo si teme. E quanto accaduto lunedì non fa eccezione a questa norma non scritta. Anzi. In pieno caos di polemiche e attacchi politici per quanto accaduto a Ischia, ecco che sull’Italia e sul suo Governo si è abbattuta una gragnuola di messaggi nemmeno troppo in codice. Mittente, Christine Lagarde. E l’occasione in cui quelle stoccate hanno visto la luce è di quelle a sua volta decisamente eloquenti: l’audizione della presidente Bce di fronte alla Commissione Affari economici e monetari del Parlamento Ue. E cosa ha detto la ex numero uno del Fmi?
In primis, l’inflazione nell’eurozona non ha affatto vissuto il suo picco, quindi il ciclo di rialzo dei tassi è destinato a proseguire, al fine di garantire il ritorno della dinamica dei prezzi al nostro obiettivo di medio termine del 2%. Stante il livello cui siamo, il processo di normalizzazione appare decisamente lungo. A meno di un’inversione talmente netta dei prezzi energetici da garantire una pressione ribassista che sblocchi la situazione. Difficile, quantomeno a livello meteo, pensare però che questo possa accadere prima di marzo. Se non aprile.
Secondo e più importante, quantomeno per il nostro Paese: Nell’attuale contesto di alta inflazione, la politica fiscale deve essere attenta a non aumentare le pressioni inflazionistiche. Il sostegno di bilancio dovrebbe pertanto essere mirato, personalizzato e temporaneo. L’entità dell’impulso fiscale deve essere limitata e avvantaggiare chi ne ha più bisogno, non deve indebolire gli incentivi alla riduzione della domanda di energia e non deve essere mantenuto oltre lo stretto necessario. Allo stesso tempo, i governi dovrebbero perseguire politiche fiscali che dimostrino il loro impegno a ridurre gradualmente gli elevati indici del debito pubblico. Al netto del carattere generale di questa sottolineatura e del contesto, appare chiaro come la contemporaneità fra richiamo e approdo in Parlamento della nostra Legge di bilancio si faccia stridente. Non tanto e non solo per i contenuti, quanto per il carattere di avvertimento.
La manovra, oggettivamente, è timida. Tiepida. Pressoché conservativa. Ma il fatto che palazzo Chigi sia stato costretto a sottolineare come la decisione di innalzare a 60 euro la soglia di esenzione dall’obbligo di POS sia tuttora al vaglio di confronto con la Commissione Ue parla chiaramente la lingua di un pizzino esplicito giunto da Bruxelles. Perché proprio quella norma faceva parte di una delle milestones del Recovery Plan che Mario Draghi fece inserire a forza lo scorso giugno, al fine di poterla brandire come successo incassato della strategia di applicazione delle norme richieste dall’Ue. Prenderla e stravolgerla in un contesto di Def totalmente amorfo, appare quindi quasi una provocazione. E l’Europa non le ama.
Christine Lagarde è stata chiara: la Bce farà la sua parte, ma i Governi non pensino di essere esentati dal fare la loro. E qui si arriva al nodo, perché la cosiddetta parte che la Banca centrale sta recitando in commedia è a dir poco esiziale. Il reinvestimento titoli e la sua prosecuzione a tutto il 2023 rappresentano infatti l’assicurazione sulla vita del Governo Meloni. Una polizza blindata. Ma anche una polizza con alcune clausole vincolanti. E Christine Lagarde ha pensato che fosse necessario ribadire en plein air la clausola numero uno di quel contratto non scritto. Se l’Italia esce dai binari della riduzione del debito, ecco che quello scudo gratuito sullo spread potrebbe venir meno. E il Governo cadere in una settimana. O, quantomeno, mutare radicalmente nella sua composizione, natura e impostazione.
Ecco il busillis: al netto di un’Unione europea che tifa palesemente per un annacquamento in senso europeista dell’attuale esecutivo, a Roma chi tifa per un cambio di partner nel tango di governo? E nel caso, chi si ritroverà a fare tappezzeria, mentre il nuovo entrato si lancia in piroette ed evoluzioni? A Bruxelles circolano rumors. Molto chiari. L’Italia avrebbe dalla sua una moratoria già approvata fino alla fine di febbraio. Nessun azzardo sul reinvestimento titoli, nessuna forzatura sul tetto massimo di detenzione per banche e assicurazioni. Fino ai primi germogli di primavera, Giorgia Meloni avrebbe garantita una tregua. Ma tutto ha un prezzo. Nella fattispecie, la trasformazione del voto regionale in Lazio e Lombardia nell’occasione per il rimpasto. Dopo quell’appuntamento spartiacque, qualcosa dovrà cambiare. Non a caso, il Terzo Polo ha letteralmente sganciato una granata nello stagno in tal senso. E con largo e programmato anticipo. E non muovendo una pedina da poco. Bensì, la Regina. E ottenendo un duplice effetto. Tentare una Forza Italia già delusa dalla marginalità del suo ruolo nell’esecutivo e offesa per il non coinvolgimento nella scrittura della manovra e mandare su tutte le furie una Lega che punta tutto sulla rielezione di Attilio Fontana, ma ha dovuto incassare una poco gradevole scena da serpe in seno con i propri elettori. Quale tensione la candidatura Moratti abbia innescato poi nel Pd e nelle sue scelte, appare palese. Tanto più che il voto regionale andrà a coincidere con la fase esecutiva del Congresso per la segreteria.
Insomma, Giorgia Meloni ha tre mesi di tempo davanti a sé. Durante i quali, neppure la Francia si sognerà di ostacolarla. Ma dovrà scavare come un fiume carsico nella sua stessa maggioranza. Fino a farla deragliare quel minimo necessario a imbarcare nuovi elementi di stabilizzazione. Numeri parlamentari alla mano e beneplacito del Quirinale compresi nel pacchetto. L’alternativa? Oltre ai rumors, a Bruxelles circolano anche i grafici. Come questo, il quale mostra non solo come il mercato di prestiti nell’eurozona sia ormai di stampo sovietico a livello di nazionalizzazione, ma, soprattutto, come l’Italia sia ormai primatista e in grado di scalzare un campione assoluto dello Stato onnipresente come l’Eliseo.
Si tratta del livello di prestiti con garanzia statale e le aree arancioni rappresentano quelli erogati e garantiti dall’Italia a partire dal primo trimestre del 2020, ovvero dalla crisi pandemica in poi. Sostegni, aiuti, scostamenti di bilancio: tutto ciò che fa capo alla voce debito. La stessa che Christine Lagarde ha detto che da ora in poi non va più aumentata. La stessa che la Lega vorrebbe invece dilata con nuovo deficit, al fine di non doversi rimangiare tutte le promesse elettorali. Flat tax in testa. La stessa che il duo Meloni-Giorgetti ha invece preservato con il bilancino, sottolineando a più riprese il suo carattere di cautela.
Insomma, l’operazione cambio in corsa pare già entrata nel vivo. Perché con le sue parole, Christine Lagarde pare aver ricordato a Giorgia Meloni come pacta sunt servanda. E che ogni tregua ha un suo costo politico. Prima che diventi economico.
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