Sapevano tutto della pulce. Ma non si sono accorti dell’elefante che si avvicinava. L’attentato di Kabul è stato il più anticipato, annunciato, quasi chiamato della storia. Si sapeva pressoché tutto: rivendicazione, giorno, luogo. Mancava l’orario. In compenso, la narrativa ufficiale vorrebbe farci credere che i medesimi indovini del caos non si siano accorti dell’avanzata dei Talebani. Di più, ignoravano che gli studenti coranici fossero in forze e ben armati.
E in attesa soltanto della conferma del ritiro Usa per dar vita alla loro conquista del Paese. Perché signori, piaccia o meno, fino al crollo dell’ottava provincia di fila e all’arrivo alle porte di Kabul, il pericolo barbuto era totalmente al di fuori dei radar occidentali. Media in testa. Gli stessi che, invece, da almeno tre giorni anticipavano la carneficina di Kabul. Sapevano tutto della pulce, appunto. Ma l’elefante nella stanza non lo hanno visto arrivare. Ne hanno preso atto quando si è seduto alla scrivania, dopo aver ribaltato le suppellettili.
Ricorda un po’ quanto accaduto con Lehman Brothers: tutti colti di sorpresa, tutti sconvolti, tutti a commentare le immagini dei dipendenti che uscivano dal palazzo con gli scatoloni in mano come se si trattasse di un fulmine a ciel sereno. Eppure, fino a tre giorni prima con quei medesimi trader, si facevano affari. E tutti – tutti – sapevano che le valutazioni dei mutui immobiliari cartolarizzati che ci si scambiava erano totalmente aleatorie e fantasiose, rispetto alla realtà sottostante. Anche in quel caso, nessuno aveva visto arrivare il pachiderma. Nonostante per almeno due anni lo avesse nutrito, lanciandogli noccioline per blandirlo e fare in modo che continuasse a trasportare i bagagli. Nella fattispecie, a garantire profitti. Il mercato, in fondo, è la guerra combattuta con altri mezzi. Ma il principio è lo stesso. L’Occidente, la Nato, gli Usa intesi come potenza egemone, hanno appena vissuto la loro Lehman Brothers: fingono di essere sconvolti dall’accaduto ma non solo erano coscienti di tutto, ne sono stati protagonisti attivi con scelte e atti concreti.
Ognuno reagisce all’orrore a modo proprio, quindi è normale che attorno agli attentati di Kabul possano scorrere fiumi di retorica. Anche da discount. E in malafede. Ma occorre dire tutta la verità, adesso. Perché è stato lo stesso Joe Biden nel corso della conferenza stampa di giovedì notte a doverlo confermare, pur tirato per la giacchetta. Come scritto in esclusiva poche ore prima da Politico, alcuni funzionari Usa avrebbero passato ai Talebani una lista di nomi di cittadini americani, titolari di green card e personale afghano che negli anni aveva collaborato con le forze statunitensi, ufficialmente al fine di favorirne l’evacuazione. Di fatto, una condanna a morte. Dopo aver creato i presupposti del disastro con il suo ritiro, l’America fornisce ai Talebani una comoda kill list già compilata con nomi, cognomi e indirizzi. Viene da chiedersi chi abbia addestrato questa gente, forse il Commissario Lo Gatto.
Poi, l’ironia finisce in fuori gioco ed è la rabbia a prendere la scena. Questa gente, apparentemente furba come l’intero cast di Scuola di polizia messo insieme, sarebbe di fatto la stessa che da tre giorni ci indicava l’aeroporto di Kabul come sicuro obiettivo di un attacco, restringendo il suo arco temporale a ieri e anticipando anche la matrice rivendicativa di affiliazione all’Isis. Qualcosa stona. Non si può essere completamente idiota un giorno e un genio dell’intelligence quello successivo: più facilmente, si sta compiendo un cinico, spregevole e ben calcolato doppio gioco. Ovvero, preso atto della mala parata in cui si è conclusa l’operazione, la quale se doveva innescare destabilizzazione, certamente non doveva farlo con Cina e Russia a prendere le leve del comando, si cerca almeno di salvare il salvabile. E di piegare a proprio favore un quadro ancora fluido, prima che si cristallizzi su equilibri consolidati. Leggi, Pechino main sponsor dei Talebani al potere e Russia ad agire da pretoriano sul campo in tutta l’Asia Centrale.
La geopolitica non è un pranzo di gala, questo è noto. Soprattutto in certi contesti. Qui però si sta esagerando. E lo dico in primis rivolgendomi simbolicamente all’Europa, la quale ora dovrà fare i conti con un flusso di profughi che potrebbe far saltare i già fragili equilibri politici interni all’Unione. Per quanto la fedeltà atlantica sarà pretesto per evitare di comportarsi appunto da alleato e non da servo? Perché l’Ue deve pagare il conto, a livello di impatto sociale ed economico, dei disastri combinati da chi mette sempre un Oceano di distanza fra sé e le destabilizzazioni interessate che compie? Perché dobbiamo ancora lasciar parlare uno come Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato che opera ormai da anni come un funzionario del Pentagono in incognito? Il suo sentimento anti-russo è noto, già dai tempi del premierato nella strategica Norvegia e durante il mandato da inviato speciale Onu. Non è un caso che persino un uomo tutt’altro che arruolabile negli scettici dell’americanismo come Paolo Gentiloni abbia perso la pazienza e alzato l’asticella della critica, parlando di fallimento totale per un’Alleanza definita disastrosa. Tradotto, Jens Stoltenberg dovrebbe risponderne. Oppure in questo Paese l’unica priorità in tal senso risiede nelle dimissioni del sottosegretario Durigon?
Chiaramente, i collateralisti dell’analisi hanno immediatamente messo in campo l’opzione dell’esercito europeo come conditio sine qua non per evitare in futuro non solo altre Srebrenica made in Onu ma anche nuove Kabul made in Nato. Forse è vero. Ma è altrettanto vero che in queste ore chi opera in base al principio che gli inglesi chiamano Jump the gun, anticipare lo sparo dello starter, lo fa con un unico scopo. Mirare falsamente al bersaglio eticamente alto per ottenere quello fiscalmente utile: gli eurobond. Il calderone è quello, inutile girare attorno al punto. Gli Usa non accetteranno mai un’Europa sovrana militarmente, quantomeno non fino quando farà loro comodo l’esistenza stessa della Nato. In compenso, spingere sull’acceleratore dell’indipendenza Ue presuppone un tasso di unione molto superiore a quello attuale, in primis politica ed economica. Proprio come prodromo all’atto simbolico del brothers in arms.
Nulla capita a caso, tantomeno a livello di tempismo. Il Covid non durerà in eterno e per mettere in piedi un impianto emergenziale di allarme terrorismo in grado di paralizzare un intero Continente, ci vuole tempo. Vedrete che, a ridosso del voto per le presidenziali francesi, saremo in pieno clima Bataclan. Ora, però, occorre trovare scorciatoie che garantiscano una fase di decompressione morbida, in attesa che gli equilibri si sviluppino. Il voto tedesco porterà in dote l’archiviazione dell’ingombrante leadership politica di Angela Merkel e, stante gli ultimi sondaggi, un tale grado di incertezza da richiedere settimane e settimane di trattative prima di arrivare alla nascita del nuovo governo di coalizione. Arco temporale in cui Berlino perderà potere di interdizione e in cui il resto d’Europa potrà muoversi in base ad altre rotte e altre agende.
Tutto vero, tutto legittimo. Non è cinismo, si chiama Realpolitik. Ma una cosa è sapere come gira il mondo, un’altra accettarne le conseguenze senza battere ciglio. Un Presidente che ammette che suoi funzionari abbiano consegnato ai Talebani una lista di bersagli, vendendoci la versione dell’elenco di aventi diritto all’evacuazione, non può e non deve essere messo in condizioni di governare il mondo, di fatto potere accessorio e tacitamente concesso in maniera bipartisan al presidente Usa. Di più, è inaccettabile che la sua retorica difensiva venga spacciata come ragion di Stato cui doversi acriticamente conformare, in nome della comune difesa del mondo libero.
L’Europa, l’Italia in testa, aprano gli occhi. E parlino direttamente e francamente con Cina e Russia, alla faccia delle scomuniche di Stati Uniti e Nato. La visita di Sergej Lavrov da Mario Draghi, in tal senso, fa ben sperare. Davvero ben sperare. Un consiglio però, caro Presidente: si guardi le spalle, da oggi in poi.
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