Il rendimento del decennale italiano ieri è sceso sotto il 4% per la prima volta da giugno 2023; a parte una breve parentesi, alla fine del 2022, i Btp a dieci anni non rendevano meno del 4% da settembre 2022. Sugli schermi finanziari sta andando in scena la scommessa degli investitori sul cambio di rotta delle banche centrali.
La scommessa non è visibile solo sul mercato dei titoli di stato europei e americani. L’unico settore che ha dato soddisfazione a chi vendeva titoli azionari a novembre è stato quello dell’energia. Tutti gli altri sono saliti e nelle ultime settimane sono saliti maggiormente quelli che più erano stati colpiti dai rialzi dei tassi come, tra gli altri, il settore immobiliare che a novembre avuto il miglior mese dal 2011. Dodici anni fa.
Lo scenario su cui si scommette è una recessione mite, sicuramente negli Stati Uniti, accompagnata da un rallentamento dell’inflazione e da tagli dei tassi delle banche centrali. In questo quadro il rallentamento economico, il peggioramento del mercato del lavoro sono più che controbilanciati, almeno dal punto di vista degli investitori, da tassi inferiori.
Queste sono le aspettative “di giornata” ed è importante individuarle non tanto per una previsione sul futuro, ma come misura di quello che potrebbe andare storto e sporcare il quadro: un’inflazione più dura a morire, una recessione peggiore o un ulteriore prolungamento del ciclo.
La recessione, o il rallentamento, che verrà è benvenuta sui mercati perché si porta dietro il taglio dei tassi e cura i grandi squilibri che il ciclo dei rialzi ha scavato nei settori più finanziarizzati, nelle pieghe dei mercati monetari, nei bilanci di molte istituzioni finanziarie e anche in quelli degli Stati. Se non fosse arrivata “naturalmente” quasi si sarebbe dovuta inventare perché non è chiaro se nel nuovo mondo post-Lehman Brothers e post-Covid ci possa essere spazio per politiche restrittive e tassi più alti senza sconvolgimenti sui mercati finanziari. In realtà è lecito dubitarne. La crisi delle banche regionali americane, di Credit Suisse o il momento critico dei fondi pensione inglesi fanno intravedere una risposta.
Oltre la fase che si apre, rallentamento economico, riduzione dell’inflazione e inversione delle banche centrali, la domanda inevitabile è quanto a lungo possa essere contenuto il rialzo dei prezzi. L’inversione delle politiche monetarie, tanto più con la fine della “globalizzazione”, pianta i semi della prossima ondata inflattiva. Le politiche di immissione di liquidità nell’immaginario collettivo sono ancora percepite come innocue nella peggiore delle ipotesi o positive. Questa percezione si è consolidata nel tempo perché non c’è mai stato, fino al 2022, un’ondata di inflazione equiparabile a quella degli ultimi due anni in conseguenza delle fasi di espansione dei bilanci delle banche centrali; ma i presupposti che hanno reso possibile questo “miracolo”, la delocalizzazione e la globalizzazione, non ci sono più. La regola è cambiata; ogni politica di immissione di liquidità da ora in poi avrà conseguenze sull’inflazione.
Per preservare la stabilità finanziaria questo è il prezzo che si paga e che ancora si fatica a percepire anche se non mancano esempi. Alcuni mercati immobiliari locali sono ormai completamente fuori dalla portata del ceto medio, chi non ha avuto incrementi di stipendio congrui ha dovuto accettare una perdita dolorosa del potere d’acquisto. Non è più possibile schiacciare il bottone dei tagli dei tassi senza pagarne il costo. L’alternativa all’instabilità dei mercati finanziari è l’instabilità sociale via inflazione. Sui mercati, peraltro, non si vota per testa ma per censo e quindi non è chiaro se gli attori che ne decretano le sorti abbiano a cuore gli interessi di tutti allo stesso modo.
Dalla crisi del 2008 il valore dei beni finanziari è rimasto inalterato e gonfiato nonostante diverse crisi economiche. È qui forse che bisognerebbe trovare soluzioni creative ai problemi che si pongono.
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