Ormai il copione comincia a essere scontato. Brutto segno, perché significa che in caso di bisogno si potrebbe essere costretti a ricorrere a soluzione straordinarie, alla proverbiale last resort. La guerra della Turchia ai curdi, quella che per una settimana ha monopolizzato politica e media, scomodando parole d’ordine degne di miglior causa con la leggerezza tipica dell’ideologia interessata più in malafede, è già finita. O, quantomeno, come nei videoregistratori di una volta, ha schiacciato il tasto “pausa”. Pochi giorni di offensiva e siamo già alla tregua, proprio per garantire ai curdi di ritirarsi. Il tutto con Assad e le sue truppe, fino a pochi mesi fa visti come l’incarnazione stessa del demonio, ora riammessi di default nel genere umano, visto che avrebbero giocato un ruolo di interposizione – su mandato russo, altro grande Satana della destabilizzazione via hacker – verso le truppe di Ankara.



Tutto scordato, ora i siriani del “macellaio di Damasco” vanno bene, fanno parte dei buoni e giusti. Ma non basta. Perché come in tutti i b-movies che si rispettino, occorreva spingere sull’acceleratore del parossismo mediatico. Ed ecco allora l’altro logoro cliché mediorientale che salta fuori, ancorché con netto anticipo sulle tempistiche classiche: l’uso di agenti chimici, ovviamente con foto-simbolo del bambino curdo rimastone vittima, stile fuga dal napalm in Vietnam. Sembra il copione usato prima con Saddam e poi, con meno efficacia, proprio con Assad, con tanto di serie su Netflix dedicata agli eroici “Elmetti bianchi”, di fatto la croce rossa degli jihadisti che oggi sono tornano tanto a temere.



Ovviamente, tutti sanno che l’unica arma proibita scesa in campo in questa guerra a uso e consumo di altre finalità (poco nobili e ancor meno confessabili) sia la dissimulazione più sfrontata: Recep Erdogan ha mille difetti, ma non quello di essere uno stupido. Altrimenti, visto il suo comportamento spregiudicato, non sarebbe ancora oggi al potere. Quindi, capite da soli che utilizzare agenti proibiti dalle Convenzioni internazionali nelle fasi assolutamente preliminari di un conflitto che sta giocando nel cortile di casa, appare un’idiozia totale. Avrebbe avuto tutto da perdere e assolutamente nulla da guadagnare, tanto più che dopo una settimana di offensiva è bastata una letterina di Donald Trump per garantire 5 giorni di cessate-il-fuoco senza fare un plissé. E, ovviamente, i curdi hanno accettato immediatamente la proposta. Da martedì prossimo, poi, tutti a Mosca a mediare.



Ora, a me poco importa di sbugiardare certe dinamiche: chi ancora ci crede o, peggio, monta casi ad arte per garantire al potere la sua cortina mediatica, farà i conti con il buonsenso. E la propria coscienza, a tempo debito. Qui, però, c’è da capire cosa servisse “coprire” con tutta questa eco mediatica, questo white noise. Oggi Westminster metterà sul tavolo della tensione internazionale un potenziale carico da novanta, in caso davvero venisse bocciato l’accordo raggiunto fra Boris Johnson e l’Ue per il Brexit al 31 ottobre. C’è poi la questione catalana, riesplosa in maniera fragorosa e violenta a poche settimane dall’ennesimo ricorso della Spagna alle urne, nella speranza di darsi un governo che regga oltre alle consultazioni preliminari. Addirittura, è stato rimandato El Clasico, la sfida calcistica fra Barcellona e Real Madrid. Roba seria, insomma, hanno messo in campo l’artiglieria pesante dell’allarmismo da panem et circenses globale.

Ovunque, focolai di destabilizzazione. Sapete quanti sono, visivamente e contemporaneamente nel mondo? Ce lo mostra questa mappa, questa è la situazione attuale a livello di proteste in atto ai quattro angoli del pianeta. Da Hong Kong a Barcellona, dalla Siria a Londra, dalla Washington dell’impeachment alla Pechino della crisi economica sempre più certificata, visto che il dato di crescita diffuso ieri – +6,0% contro le attese di un già deludente +6,1% – è il più debole da 27 anni a questa parte, cioè da quando viene ufficialmente tracciata la serie storica.

Non è credibile che tutto questo sia frutto spontaneo delle tensioni accumulatesi e sedimentate in strati di sempre maggiori diseguaglianze dopo l’annus horribilis della crisi Lehman. Qui c’è qualcosa di precostituito a tavolino, c’è una strategia. Grazie al cielo, non ancora della tensione nel senso deteriore che l’Italia ha vissuto dal finire degli anni Sessanta fino al 1993. Fra qualche settimana, ricorrerà il 50° anniversario della strage di Piazza Fontana, la perdita dell’innocenza dell’Italia post-bellica e contrafforte di interessi geopolitici al tempo della Cortina di ferro. Fu il primo sangue innocente versato dalla Repubblica per il “bene superiore” della stabilità, fu il battesimo del fuoco di un gioco di potere tanto sporco, quanto inevitabile.

All’epoca si destabilizzava all’ombra di un Muro e a colpi di tritolo, in nome della contrapposizione fra due mondi. Oggi lo si fa per mantenere in vita un sistema che è marcio, manipolato e disfunzionale nel midollo, ma che, giocoforza, non ha un’alternativa percorribile. Per questo e non per altro, spuntano come funghi conflitti sempre più diffusi e a bassa intensità. Per questo, forse, la prima emergenza legata all’offensiva turca è stata quella della potenziale fuga dalla carceri curde di militanti e foreign fighters dell’Isis: perché quel pericolo andava percepito subito sulla nostra pelle, un brivido rapido e gelato che si sostanzia nel ritorno della paura di prendere l’aereo o la metropolitana. Siamo in mano ai cavalieri di ventura, alle anime nere, oggi come non mai. Nelle sale di comando come in quelle del trading, dove si decidono i veri destini del mondo.

Guardate questi due grafici, ci mostrano la dinamica imperante degli ultimi giorni: vi sarete accorti, quantomeno dalle notizie al tg, come nonostante un insieme senza precedenti di criticità geopolitiche, le Borse non siano affatto crollate. Anzi. E non si tratta della legge spietata in base alla quale “quando c’è sangue nelle strade, compra”, c’è dell’altro. C’è che il mercato campa proprio di quei segnali di tensione geopolitica per catalizzare le reazione di acquisto o vendita degli algoritmi: è come con i social network, quando serve far passare un messaggio. Bombardamento di informazioni, di foto, di meme, di gif. Il mercato è uguale: ormai occorre fornire 20-25 input di informazioni contrastanti fra loro ogni giorno, al fine di direzionare a proprio piacimento gli indici.

Lo mostra bene il primo grafico: un mega short-squeeze ha rispedito Wall Street in verde. Ovvero, una stringa di notizia positive – più o meno reali, poco importa – ha portato gli algoritmi ad acquisti di massa che, a loro volta, hanno innescato chiusure automatiche di posizioni ribassiste presenti in numero sostanziale sul mercato. Poi, si compra sui minimi in ossequio all’ennesima folata di entusiasmo. Il secondo grafico, però, ci mostra come l’ultimo short squeeze sia andato molto in profondità, raschiando il proverbiale barile: ora lo short interest sullo Standard&Poor’s 500, ovvero la percentuale di scommesse ribassiste presenti sulla totalità dei titoli contrattati, è a un livello molto basso, tipico di nette correzioni degli indici stando alle tracciature del passato recente.

Insomma, potremmo essere alla vigilia di un brutale calo delle Borse, esattamente come accade lo scorso anno prima di Natale. Quando serviva inviare un segnale alla Fed, la quale infatti bloccò immediatamente le redemptions di titoli dal suo bilancio, prodromo al Qe4 appena cominciato ufficialmente. Di fatto, è un gioco a somma zero. Ma quando hai artificialmente mandato gli indici ai massimi storici – fra buybacks, Qe di vario genere, shock fiscali che garantiscono rimpatrio di capitali, emissioni di debito senza precedenti -, questa dinamica si sostanzia nel riuscire a mantenere quantomeno quel livello: significa avere valutazioni alte, millantare multipli di utile per azione fuori dal mondo e, soprattutto, staccare dividendi, cedole e bonus.

Sono solo soldi, è soltanto l’ultimo banchetto prima del ciclico e ormai inevitabile redde rationem da abuso strutturale di azzardo morale. Vi rendete però conto di quale sia il costo, a livello di vite umane e devastazione di interi Paesi e società, che questo giochino finanziario impone? E sarà sempre peggio, perché aumentando il grado di leverage e le criticità di mercato a esso connesse (in primis, indebitamento strutturale e ormai di sopravvivenza), occorrerà destabilizzare sempre di più: nella realtà così come sui media o nei social network.

Sapete come si interrompe questo Matrix? In un unico modo: distruzione schumpeteriana. Basta tassi a zero, basta Qe, basta denaro a pioggia. Ci saranno morti e feriti, metaforicamente parlando, ma finirà questa follia generalizzata, almeno. E si potrà ripartire, con un costo del denaro che mantenga in vita solo chi è in grado di farlo e spazzi via gli approfittatori e i drenatori di risorse, i pescecani del monetarismo espansivo. Occorre tornare al mercato, quello vero. Quello che non voleva lo Stato di mezzo, se non al minimo sindacale e che ha permesso a un paio di intere generazioni di classi lavoratrici di tramutarsi in classe media, proprietaria di prima casa e in grado di far studiare i propri figli, oliando i meccanismi dell’ascensore sociale tramite crescita e risparmio.

Chi ce la fa, resti sul mercato. Chi deve indebitarsi strutturalmente o peggio, venga spazzato via. Perché l’alternativa al cosiddetto liberismo brutto e cattivo, non so se lo avete capito, è il caos strutturale in cui stiamo precipitando. Giorno dopo giorno, quasi senza accorgercene.