Come sapete, il motto preferito da Alan Greenspan recitava che quando la situazione si fa davvero seria, il dovere di un banchiere centrale è quello di mentire. Bene, il motto preferito dal sottoscritto, invece, recita che quando la stampa cosiddetta autorevole è costretta a dire la verità, la situazione si fa davvero seria. Preparatevi, quindi. Perché sui giornali di domani la battaglia sarà incentrata sulla revisione delle serie storiche dell’Istat relative al Pil italiano. Di fatto, qualche decimale di guadagno che garantirà al Governo qualche risorsa in più in sede di manovra.



Contabilità creativa. E non lo dice il sottoscritto. Perché quando il ministro delle Finanze anticipa tutti e dichiara che sui conti pubblici non vi sarà alcuna scorciatoia, l’odore mellifluo dell’excusatio non petita si sparge nell’aria a piene mani. Meno tre punti percentuali di ratio debito/Pil. E un po’ di agio anche sul deficit. Gli Usa hanno fatto scuola.



Ora, date un’occhiata a questo strappo. Arriva dall’edizione dello scorso weekend del Financial Times.

E cosa ci dice? Che la favoletta in base alla quale i tassi di interesse alti degli ultimi trimestri avrebbero colpito la redditività delle banche è appunto tale. Una favola. La ragione? Semplice, le banche vi hanno remunerato con le briciole. Quindi si sono garantite profitti attraverso un arbitraggio sui tassi che nessun regolatore fino a oggi ha ritenuto degno di una bella supervisione ex post. Certo, l’analisi compiuta dal team del quotidiano finanziario è incentrata sulle banche Usa e sul regime di tassi della Fed. Ma è tranquillamente traslabile alla Bce e agli istituti di credito europei. Di fatto, le banche caricano interessi esorbitanti sui prestiti che concedono – oltretutto, a fronte di garanzie a dir poco stringenti e una politica di blocco, ritiro e rientro senza tanto preavviso -, ma remunerano i depositi con tassi decisamente risibili. Ecco l’arbitraggio. Paga pantalone. Perché il Qe mica è stato designato a caso. Bensì creato per operare in ogni regime di ciclo economico. Sempre a favore degli stessi.



Durante la crisi, la liquidità delle Banche centrali va ad acquistare assets che liberano i bilanci incagliati degli istituti commerciali e fanno volare le Borse. Nei momenti di bonaccia, invece, garantisce appunto arbitraggi di vario genere. In attesa delle facilities ad hoc, quelle pre-Qe. Vedi il Btfp statunitense o le aste Tltro europee. Vale tutto. L’importante è spuntare sempre qualcosa. Sia tramite il carry trade basato sul differenziale fra tassi di acquisizione del capitale e di deposito presso le varie facilities, sia appunto quello cosiddetto di mercato che vede caricati spread impliciti sulla clientela. Salvo poi tempestarla di mail con offerte a tempo su conti senza vincoli al 4%.

Parliamo delle medesime banche che ora vengono chiamate in causa timidamente per una nuova pantomima sugli extra-profitti. Non sia mai, ovviamente. Tutto su base volontaria. Altrimenti Forza Italia si arrabbia e la maggioranza balla, proprio in sede di sbarco in Aula della manovra economica. Oltretutto con il fucile dell’Europa puntato sui nostri conti, causa procedura di infrazione.

In attesa che l’Istat garantisse un punticino percentuale di deficit in meno grazie ai suoi magheggi su serie storiche che arretrano fino alle Guerre Puniche, ecco nuovamente tornare in auge la narrativa in base alla quale le banche non vanno toccate. Poiché garantiscono al Sistema la liquidità necessaria. Di grazia, quale liquidità? E soprattutto, a quale sistema? Parlate con un titolare di PMI. O un negoziante. Poi parlate con un manager di Stellantis. Casualmente, la loro visione del tasso di collaborazione del sistema bancario verso l’economia reale sarà differente. L’Italia e il suo Pil su cosa si basano, PMI o la Stellantis di turno?

Il primo round della pantomima sugli extra-profitti si sa com’è andato a finire: una complicatissima e sofferta scelta fra pagare il giusto dopo il Bengodi dell’arbitraggio oppure ricapitalizzarsi con quell’extra-gettito, lasciando il fisco a bocca asciutta. Ovviamente, si ricapitalizza. Ad esempio, ciò che Unicredit non ha pagato allo Stato è servito per la scalata a Commerzbank. Ora messa in dubbio dallo stop del Governo Scholz a cessione di nuove quote. E al nein dei sindacati tedeschi, spaventati da possibili esuberi in patria per tutelare i posti di lavoro in Italia.

Prestigio nazionale? Schadenfreude mal riposta? Libidine da colonizzazione del colonizzatore? Di fatto, l’Italia non avrebbe più bisogno del mitologico terzo polo bancario per garantire concorrenza e reale trasmissione del credito (e gestione del risparmio) più che di internazionalizzazione e shopping da prima pagina, quando si tratta di un soggetto fallito e rimesso in piedi dallo Stato tedesco? Non ne abbiamo uno anche noi, di grazia? Qualcuno si ricorda che entro fine anno occorrerà dare risposta all’Europa sulla partecipazione statale in Mps? Da cui Unicredit si è tenuta ben lontana, ovviamente. E anche Unipol ha messo un bel cavallo di Frisia a difesa del proprio potenziale interesse nell’operazione senese: o entra in gioco anche la compartecipazione assicurativa o niente. Interessi su interessi. Sacrosanti. Le banche sono soggetti privati. E devono produrre utili. E dividendi. Perché però si scordano il loro status legale, quando corrono alle aste di rifinanziamento della Bce oppure scaricano allegramente titoli diventati bollenti nei propri bilanci, grazie al Qe ormai ciclico e strutturale?

La Bank of England è lì a ricordarci come le perdite da Qe non siano ipotetiche. Ma reali. Chiedere in tal senso al Treasury britannico costretto a ricapitalizzare e coprire. Se sei privato, lo sei sempre. Nella buona e nella cattiva sorte. Come gli sposi. Sapete qual è il problema? Il doom loop. Finché banche e assicurazioni potranno ricattare il Tesoro con le loro detenzioni sistemiche di debito pubblico, nulla cambierà. E la difesa a oltranza messa in campo da Antonio Tajani ha ragioni antiche e contingenze attuali. Le prime fanno capo proprio alla battaglia dell’allora Presidente dell’Europarlamento contro il tetto alle detenzioni di debito domestico per banche e assicurazioni. Le seconde al fatto che da fine anno la Bce comincerà a ragionare fattivamente sullo stop al reinvestimento titoli del Pepp. Di fatto, rimettendo sul mercato secondario titoli di nostro debito. Occorre tamponare. Occorre tutelare quelle banche che nel 2025 dovranno ricomprare parte di quei Btp, al fine di continuare l’opera di calmieramento artificiale dello spread garantita dal Covid a oggi dall’Eurotower.

Vi dicono che il debito in sé non fa danni, tanto mica va per forza remunerato a scadenza. Si può rifinanziare. Vero. Ma nel mentre, il credito a famiglie e imprese continua a contrarsi, se a operare quel concambio mascherato sono le banche. I tassi su prestiti e mutui restano fuori mercato, grazie a spread applicati ad hoc. E l’economia reale muore a tutto vantaggio della finanza.

Pensate che non sia vero? Ditelo al Financial Times. Costretto suo malgrado a dire la verità. Pessimo segnale.

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