Spero che Giorgia Meloni non si offenda e non legga queste parole come una mancanza di rispetto. Ma la vera presidente del Consiglio italiana parlerà oggi. A Francoforte. E, paradossalmente, la decisione sui tassi che comunicherà sarà la meno interessante. Quantomeno, quella con meno implicazioni dirette e immediate per l’Italia. Se infatti il mercato prezza in automatico un nuovo, massiccio aumento, stante livelli di inflazione che ancora non hanno raggiunto il picco e restano comunque in area 5x di overshooting rispetto all’obiettivo simmetrico del 2%, ecco che oggi il board deciderà su due argomenti apparentemente da addetti ai lavori. Ma con conseguenze decisamente di uso quotidiano.
In primis, è attesa una comunicazione più o meno ufficiale e definitiva sul cosiddetto QT a partire da marzo 2023, ovvero il dimagrimento dello stato patrimoniale della Banca centrale dopo l’ultima e pantagruelica abbuffata del Pepp anti-pandemico e la sua appendice di reinvestimento titoli per calmierare gli spread più a rischio. Secondo, il cambiamento dei criteri che regolano i prestiti a lungo termine in seno alle aste di rifinanziamento bancario Tltro.
Questo secondo argomento di discussione appare più interessante, perché più stringente. Se infatti l’annuncio del QT risentirà comunque di un arco temporale che, fra recessione e guerra, potrebbe subire da qui a marzo ulteriori scostamenti, il ritocco sui prestiti appare di immediata applicazione. E cosa imporrebbe? Sostanzialmente, il rischio maggiore è quello di un tiering o cambio di remunerazione delle riserve in eccesso che le banche europee depositano overnight alla facility Bce, ottenendo un tasso di interesse su quella liquidità pari all’attuale tasso di deposito. E, cosa più importante in tempi che hanno segnato un wipe-out di capitalizzazione di mercato da 13 trilioni di dollari globalmente, totalmente e ontologicamente risk-free.
Finché il tasso di remunerazione era pari a zero, ovvero per mesi e mesi prima del rialzo record da 75 punti base dell’8 settembre, le banche trattenevano le riserve in eccesso frutto di quelle aste di rifinanziamento a lungo termine. Di fatto, operando secondo la ratio che le regola e le determina: garantire liquidità al sistema per famiglie e imprese. Ovvero, formalmente trasformandole in attivi. Saliti i tassi e cominciati i primi scossoni sui mercati azionario e obbligazionario, gli istituti di credito – i quali non solo onlus – hanno cominciato a operare nella stessa modalità che da almeno due anni garantisce introiti gratuiti ai colleghi Usa. I quali ogni giorno depositano trilioni di dollari presso la facility di reverse repo della Fed di New York. Insomma, invece di tenere i soldi in cassa, li spostano a Francoforte vincolandoli nottetempo e guadagnandoci sopra. E non poco, stante l’attuale 0,75% che regola i depositi. Senza fare nulla. E quella voce pesa. Pesa molto. Perché fa riferimento al cosiddetto net interest income, una voce di bilancio che se viene ridimensionata dalla scelta Bce di modificare retroattivamente al ribasso la remunerazione, crea un buco di bilancio previsionale. Tradotto, le banche incamerano meno del previsto da quegli interessi e devono far saltar fuori il denaro altrove. Magari, nei casi più estremi, da vendite di assets o aumenti di capitale.
E mi pare intuitivo a tutti il fatto che questo non sia esattamente un momento propizio per chiedere soldi ai mercati, basti guardare il titolo di Mps che martedì ha chiuso le giornate di contrattazione della nuova emissione legata all’aumento da 2,5 miliardi sotto la soglia dei 2 euro per azione prefissata. Un bel guaio per il ministro Giorgetti, al netto di una moral suasion del Tesoro presso le fondazioni bancarie che nelle ultime 72 ore ha sfiorato i profili della vera e propria questua. Se non dello stalking.
La voce che circola con insistenza a Francoforte è che l’intenzione sia quella di remunerare quei depositi non più come riserve in eccesso ma come requisiti minimi di riserva, Ovvero, molto meno. E le nostre banche, pur non a rischio immediato, certamente non trarranno beneficio da una simile mossa. Anzi. Quindi, attenzione.
C’è poi una seconda criticità, questa legata più a dinamiche di lungo termine e al cosiddetto QT. Questo grafico ci mostra come il vero e proprio bagno di sangue autunnale patito dalle obbligazioni globali abbia comportato un fenomeno inquietante: le Banche centrali scontano perdite potenziali da 6,7 trilioni di dollari fra valore di mercato e valore nominale dei bonds che detengono a bilancio.
Ovviamente, i difensori a oltranza del monetarismo da stamperia perenne faranno notare come gli Istituti centrali non siano statutariamente soggetti al calcolo mark-to-market dei propri assets, quindi non esiste rischio svalutativo. I più estremisti, solitamente cultori Mmt o dell’helicopter money alla giapponese, si spingono oltre: se anche ci sono perdite, nessun problema. Le Banche centrali possono stampare all’infinito, quindi ogni buco si può ripianare con un semplice impulso elettronico. Si schiaccia il tasto print e il gioco è fatto. E le perdite? Si sterilizzano.
Siamo sicuri però che questa convinzione perversa valga anche in tempi di inflazione a doppia cifra? Siamo certi che, avanti di questo passo, la Fed o la Bank of Japan o la Bank of England possano utilizzare il loro Tesoro per ripianare i buchi – come ha fatto appunto il Treasury britannico solo venerdì scorso con un primo, storico trasferimento di 11 miliardi di sterline alla Old Lady -, mentre la Bce no, stante troppi galli nel pollaio? Tradotto, sicuri che a fronte di un unicum simile, capace di mettere in crisi il totem dell’assenza di rischi associato al Qe e ai programmi espansivi in genere, la Bundesbank non cominci a guardare con occhi differenti e molto più preoccupati alle liabilities record che vanta verso Target2? Sicuri che questo non la spingerà, precauzionalmente e a livello di consenso verso l’opinione pubblica interna, a imporre da subito regole di garanzia stringentissime per qualsiasi operazione monetaria straordinaria e per lo Stato membro che ne benefici?
Tradotto ulteriormente: l’Italia rischia di dover sottoscrivere qualche polizza assicurativa per vedersi garantito lo scudo anti-spread del reinvestimento titoli, quello attualmente in vigore e che prevede di fatto un concambio fra vendite di Bund e acquisto di Btp da parte della Bce? Il Governo sovranista dovrà, al fine di evitare il Mes o il Tpi, cedere a un mini-vincolo di garanzia temporanea che porti a un ampliamento ulteriore del potere di vigilanza e verifica di Eurotower e Commissione Ue sui nostri conti? Difficile escluderlo alla luce di quella dinamica sulle perdite a bilancio. Difficile escluderlo, quando la Bce decide di operare in modalità di estrema rigidità nei confronti del comparto bancario proprio in un momento di pre-recessione come questo, ormai ufficiale e pubblicamente accettato.
Cosa sanno a Francoforte che noi comuni mortali ancora ignoriamo, se dovessero davvero decidere un immediato irrigidimento delle condizioni ex post legate ai prestiti Tltro e alle loro remunerazioni di deposito?
Attenzione, oggi la Bce è chiamata a inviare un segnale importante. E non legato ai tassi di interesse. Un segnale che per l’Italia potrebbe tramutarsi in un primo campanello di allarme, la prima vera prova.
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