Qual è il modo migliore per evitare che la gente prenda atto di un fallimento politico e, di conseguenza, faccia prezzare dalle sue azioni conseguenti la delusione per quell’epilogo? Esatto, una bella cortina fumogena. O, meglio ancora, uno specchietto per le allodole. E Mark Carney, il governatore della Bank of England, nella seconda giornata del meeting dei banchieri centrali a Jackson Hole ne ha tirata fuori una straordinaria, non a caso terminata su molte prime pagine e addirittura divenuta titolo d’apertura del Sole24Ore di sabato scorso: una valuta stile Libra che sostituisca a livello globale il dollaro, una sorta di paniere alternativo di riferimento per contrastare, non ultimo, lo yuan e le sue manipolazioni.
Accidenti, una bomba! Però, occorre andarci piano con certe cose. Più che altro, occorre riflettere bene, non fosse altro perché trattasi di provocazione non esattamente di prima mano. L’ultimo che aveva avanzato una proposta simile, ovvero sostituire il dollaro sul lungo termine con un basket di valute (comprendenti anche lo yuan, in quel caso) per determinare il nuovo benchmark globale negli scambi e nella denominazione di securities era stato Dominque Strauss-Kahn a fine del suo percorso alla guida del Fmi: cosa gli sia accaduto, di lì a poco, è noto a tutti. Un ometto minuto di oltre 60 anni riesce a molestare sessualmente una cameriera di colore dal fisico simile a quello di Mike Tyson in una stanza d’albergo: arresto, processo, reputazione rovinata. Poi tante scuse. A prescindere. Sicuramente, un caso.
A livello teorico, per carità, sono anni ormai che si parla di superamento del biglietto verde come reazione alle sfide globali e ai nuovi equilibri post-globalizzazione, ma una cosa è dedicare all’argomento dotti simposi di economisti, meramente teorici e accademici, un’altra il fatto che un banchiere centrale di livello lo dica – en plein air, ribadendolo poi in un’intervista con Cnbc – al meeting di Jackson Hole. E poi, Mark Carney mica è solo il numero uno di Bank of England. Prima è stato a capo della Banca centrale canadese. Ma, soprattutto, per anni è stato alto dirigente di Goldman Sachs. Ovvero, di un’istituzione che sovrintende a qualche centinaio di miliardi di trades denominati in dollari e sparsi per il mondo, attraverso il canale dei mercati finanziari. Insomma, non uno di primo pelo.
Ora, questi due grafici mettono plasticamente in prospettiva quale sia il peso del dollaro ancora oggi a livello di commercio e mercati mondiali: praticamente, il dominatore assoluto. Nonostante un euro sempre più protagonista e uno yuan sempre più manipolato e manipolabile, in tempi di guerre commerciali. Eh già, da marzo a oggi la divisa cinese è calata del 13% sul biglietto verde statunitense: un cuscinetto straordinario che ha finora attutito il peso sull’export delle tariffe imposte dalla Casa Bianca. Ma ora, dopo che la mossa di Pechino ha innescato l’immediata e radicale rappresaglia di Donald Trump, quanto potrà e dovrà calare lo yuan nel cambio per continuare a operare il suo off-set e non sancire la vittoria finale americana? Tanto, sempre in linea teorica e se non fossimo nel pieno dell’ennesima recita a soggetto.
Peccato che yuan debole significhi infatti anche potere d’acquisto interno in calo e fughe di capitali. E qual è la via d’uscita operativa di quasi tutti gli outflows di denaro dalla Cina continentale? L’hub finanziario di Hong Kong. Fate due più due con la cronaca di questi giorni e ci siamo. Ora, al netto del profilo di Mark Carney, vi faccio una domanda: vi pare normale la reazione di Donald Trump alla proposta shock giunta da Jackson Hole? Anzi, la non reazione. Perché il Presidente non ha minimamente commentato quella proposta, nonostante sia stata ripresa da tutti i grandi media globali. Gli stessi media che Trump diffama e insulta quotidianamente nei suoi tweet, accusandoli di spacciare fake news. E voi volete dirmi che il campione dell’America first, del sovranismo, l’uomo che per primo ha infranto il tabù di definire ufficialmente Pechino manipolatrice valutaria, sente una tesi del genere aleggiare in un simposio di prestigio come quello della Fed in Wyoming e non dice nulla, non twitta nulla? Io non ci credo. Oltretutto, avendo servita sul piatto d’argento la possibilità di attaccare ulteriormente Jerome Powell, visto che da buon padrone di casa ha consentito che circolassero tesi sovversive come quella: “Pensi a tagliare i tassi, invece che indebolire lo status del dollaro. Inetto!”, il tweet perfetto che Trump avrebbe potuto lanciare in Rete con somma gioia, soprattutto in vista della riunione del Fomc del 17-18 settembre. E invece, silenzio.
Vogliono eliminare lo status di moneta di riserva e benchmark globale al dollaro e Donald Trump non proferisce verbo: voi ci credete? Io no, lo ripeto. D’altronde, però, se non fosse uscita quella pietrata simbolica nella vetrina di ufficialità del simposio della Fed, sarebbe emerso altro. Ovvero, un Jerome Powell che non si è affatto rimangiato la sua tesi, in base alla quale il taglio dei tassi compiuto a fine luglio va visto unicamente come un aggiustamento di metà ciclo e non il prodromo di un nuovo stimolo strutturale, di una nuova stagione di allentamento quantitativo. Come vuole (e necessita, sempre più disperatamente in vista del voto) Donald Trump.
Non ci fosse stata la cortina fumogena lanciata da Mark Carney, i mercati avrebbero dovuto digerire un governatore della Fed che ha mostrato – non si sa quanto per convinzione o per parte in commedia – schiena dritta rispetto ai diktat da stalker del Presidente, ribadendo le sue convinzioni su economia e politica monetaria e aprendo unicamente a una conferma di peggioramento delle condizioni generali dell’economia. Fattori esogeni, però. Uno dei quali, la guerra con la Cina, scatenato dal Presidente per sua diretta volontà politica.
Signori, siamo in campagna elettorale negli Usa. Tutto ha un doppio fine. Non a caso, oltre a Mark Carney, a monopolizzare la scena nel weekend ci hanno pensato altri due eventi: la recrudescenza del conflitto commerciale, appunto e l’Amazzonia in sede di G7 a Biarritz. Di tutto si è parlato, tranne che delle cose serie (a livello finanziario, intendo, l’Amazzonia ridotta a posacenere dalle follie latifondiste del presidente brasiliano è un dramma reale). Ovvero, Jerome Powell è sempre meno Monsieur Malausséne della situazione e sempre più contropotere attivo della Casa Bianca nella disputa che accompagnerà gli Usa verso le presidenziali del 2020. Piaccia o meno, la famosa indipendenza della Fed è andata ufficialmente a farsi benedire. E questo, forse, è meglio non dirlo. Onde disvelare teatrini, altarini poco onorevoli e sepolcri imbiancati.
Non a caso, ieri mattina Donald Trump ha dichiarato che la Cina si è fatta sentire e, guarda caso, ha chiesto di riattivare i colloqui sul commercio: “Ora i colloqui con Pechino possono iniziare seriamente”, ha immediatamente twittato il Presidente. Altra distrazione di massa, altro stop-and-go che consente ai mercati azionari di rigonfiarsi. E sapete perché si gonfiano? Semplice, siamo in pieno tentativo di formazione di un sellable rally, ovvero un mercato rialzista di breve termine e focalizzato sul parco buoi che consenta a chi di dovere di alleggerire portfolio e bilanci dagli assets più a rischio da un potenziale re-price dopo che a settembre sia la Fed che la Bce sveleranno i loro piani effettivi al mercato.
E voi pensate che in un ambiente simile, con una tensione simile, sia credibile la mossa di Mark Carney di pensionare realmente il dollaro, oltretutto lanciando la provocazione dal simposio annuale della Fed? Ricordate da dove arriva, il governatore della Bank of England. E ricordatevi soprattutto di ciò che conta, adesso: arrivare in tempo alle scialuppe di salvataggio. Il resto, è conversazione.