La categoria del capro espiatorio racchiude in sé un intero universo di declinazioni, paradigmi, significati, metafore. Per questo, ad esempio, un filosofo come René Girard fece quasi un’ossessione di questa figura, tanto da dedicargli uno dei suoi volumi più noti. Daniel Pennac, poi, costruì il suo personaggio più amato e riuscito, Monsieur Malausséne, ritagliandogli addosso proprio questo stigma sociale, tramutandolo addirittura in professione. Più prosaicamente, a volte il capro espiatorio perde i connotati alti della filosofia o della letteratura e si palesa sotto forma di mero e quotidiano colpevole circostanziato. Insomma, se qualcosa è andato male, la colpa è sua. Meglio ancora, se qualcosa andrà male, il pubblico si prepari a riversare sul bersaglio debitamente indicato la propria indignazione.
A questa categoria rischia di appartenere l’attacco lanciato dal Wall Street Journal contro Ernst&Young attraverso un corposo j’accuse di tutti i veri o presunti fallimenti professionali in cui sarebbe incorsa una delle Big four dell’auditing internazionale. A partire, ovviamente, dal caso più eclatante e più recente, il crollo di Wirecard e la conseguente scoperta del castello di truffe e manipolazioni poste in essere dall’ex reginetta dei pagamenti elettronici tedesca. Un attacco a tutto tondo quello lanciato dal quotidiano finanziario Usa, sintetizzabile in questi tre grafici a corredo dell’intemerata.
Primo, Ernst&Young attrarrebbe clientela tramite una politica di compensazione delle proprie prestazioni più bassa dei diretti concorrenti. Di fatto, una sorta di sillogismo per gettare in controluce il dubbio sul perché di tante mancanze emerse nel profilo di professionalità del suo operato. Secondo, questa politica di costi ridotti sarebbe di fatto un magnete per attrarre aziende in vista della quotazione. Anzi, a detta di un ex chief accountant della Sec, Ernst&Young opererebbe in questo modo proprio nella speranza che poi quelle medesime aziende decidano di rompere gli indugi rispetto al processo di Ipo. Terzo, una serie assortita di mancanze più o meno dolose. Si va dal non aver notificato nel corso dell’audit di Wirecard il fatto che l’entità designata a operare come detentrice del capitale non avesse in realtà la licenza da trust business, nonostante l’informazione fosse pubblicamente disponibile su un sito del governo di Singapore, fino ai 300 milioni di false revenues della Luckin Coffee poi giustificate come coffee vouchers venduti ad aziende legate sempre al patron della casa madre, Charles Lu e all’accusa mossa dal Financial Reporting Council britannico, il quale invitava Ernst&Young a “essere maggiormente scettica… il management dovrebbe porre maggiore enfasi su questa sfida per l’azienda”.
Accuse sostanziate, nulla di apparentemente gettato nel ventilatore con l’intenzione di screditare ad ampio raggio. E, certamente, Ernst&Young dovrà rispondere di quelle che appaiono quantomeno come leggerezze inaccettabili. Verso i propri clienti, forse verso le autorità. Certamente, verso il mercato. E qui emerge il discrimine. Qui si varca il Rubicone del non detto, si scoperchia forse involontariamente il vaso di Pandora dell’enorme ipocrisia di fondo dell’attacco sferrato dal Wall Street Journal. Tale da rendere tutt’altro che peregrino il sospetto di un voler mettere le mani avanti, in caso qualcosa dovesse precipitare in qualche meandro dei mercati sconosciuto alle opinioni pubbliche, ma che innescasse un effetto domino tale da tramutarsi in titolo di prima pagina di tutti i quotidiani.
Di fatto, le intere settimane di congelamento dell’interbancario che annunciarono la crisi Lehman e che restarono argomento da gastrite sono per gli addetti ai lavori. Almeno, fino al weekend del 13 e 14 settembre 2008. Perché il Dio laico della Coincidenza e del Caso, ha voluto che in contemporanea con l’articolo del Wall Street Journal anche il quotidiano finanziario del Vecchio Continente, il Financial Times, pubblicasse un articolo di quelli che fanno rumore. In questo caso, rumore di risate. Perché circolando sulle chat frequentate sotto anonimato da chi opera sui mercati, i virgolettati del servizio del quotidiano della City venivano citati a memoria e fra lo scherno generale come fossero battute di un grande classico della risata. Un po’ come si ripetono a macchinetta le frasi di Una poltrona per due, la vigilia di Natale. E il titolo ne era il compendio assoluto: Federal Reserve debates tougher regulation to prevent asset bubbles. Irresistibile.
Ad esempio, ecco il parere al riguardo di Eric Rosengren, stimatissimo Presidente della Fed di Boston: “Se vuoi seguire una politica monetaria che applichi tassi di interesse bassi per molto tempo, devi esigere un’autorità di supervisione finanziaria robusta, al fine di poter restringere l’ammontare di un eccesso di risk-taking nel medesimo arco temporale. Altrimenti, rischi di finire in una situazione in cui i tassi possono sì restare bassi a livello prolungato ma divenire anche controproducenti”. Oppure Neel Kashkari, ciarliero numero uno della Fed di Minneapolis, a detta del quale “non so quale sia la miglior soluzione politica ma so con certezza che non si può andare avanti come abbiamo fatto finora”. Infine, la perla, regalata della governatrice della Fed di San Francisco, Mary Daly: “Non vedo tutta questa connessione fra una politica monetaria espansiva e rischi finanziari”. Di fatto, non vedo il motivo per cui i suoi colleghi stiano discutendo del tutto sulla questione. Rassicurante.
Ora, al netto di questa strana quanto tardiva presa di coscienza relativa all’azzardo morale ontologico che ha accompagnato pressoché tutti i cicli di Qe nel gonfiare bolle sugli assets, indici azionari in testa, ecco che questi grafici sembrano arrivare al nocciolo della questione, senza scomodare schermate di andamento comparato di Bloomberg o correlazioni percentuali fra stato patrimoniale delle Banche centrali e rally di Borsa, ormai sdoganate anche dalla stampa mainstream: vogliamo negare anche la correlazione fra esplosione di numero delle zombie firms (negli Usa e nel mondo) e operatività della Fed e in generale delle Banche centrali attraverso programmi espansivi, forse?
Alla luce di questo, cosa può sottendere un attacco a freddo e diretto a una società di auditing come quello contro Ernst&Young e un contemporaneo bagno di rigorismo e buonsenso precauzionale come quello messo in mostra dalla Fed attraverso il Financial Times? Non si sta forse cominciando a scostare il drappo rosso che nasconde il bersaglio da colpire, quando la prossima crisi salterà fuori dal nulla, out of the blue, come nel 2008? Ma, cosa ancora più grave nella sua ipocrisia sistemica e seminale, davvero si vorrebbe che aziende private chiamate a scannarsi fra loro al fine di ottenere contratti di consulenza, poi operino anche da cavalieri coraggiosi nello svelare le magagne di un sistema mandato totalmente in overdrive da azzardo morale proprio dalle stesse Banche centrali che tutti ritengono i cavalieri bianchi della situazione, stampa spesso in testa, almeno dal 2008?
Davvero pensiamo che Ernst&Young o chi altro possa e debba guardare i bilanci drogati dalla liquidità a pioggia di un sistema ormai totalmente manipolato con occhi virginali e decida di recitare la parte del bimbo che, forte della sua candida innocenza puerile, grida al mondo che il Re è nudo? Ovviamente, tutti sanno che non è possibile, al netto appunto dell’ipocrisia. Ma l’operazione andata in onda di rimpallo mediatico fra New York e Londra nell’ultimo weekend pare invece molto indirizzata verso una forzatura in tal senso della situazione.
Volete un colpevole? Eccolo, guardate questa gente che cantonate ha preso più o meno volontariamente, mentre compiva audit e due diligence. Volete che non sia colpa loro, se poi il mercato andrà a schiantarsi e la gente perderà anche le mutande che ha postato come collaterale in conto titoli su Robinhood? Quante Wirecard “legali” si annideranno potenzialmente in quella linea di crescita infinita di aziende tenute in vita solo da un regime drogato di finanziamento extra-mercato e con tassi compressi artificialmente dalle Banche centrali, a vostro modesto avviso?
Certo, finché i casi che terminano in crash e fallimento si contano sulle dita di due mani, si può dare la colpa all’audit. Non sarà che, con l’approssimarsi del redde rationem con la volatilità del 3 novembre negli Usa, qualcuno stia mettendo le mani avanti rispetto a un’ipotesi più estrema, una palla di neve sul rischio di controparte che diventi valanga prima ancora di raggiungere la vallata sottostante, una slavina chiamata VaR? Perché se così fosse, la mossa della Fed rischierebbe di tramutarsi in uno dei più clamorosi casi di autogol della propaganda nella storia della finanza. Seguendo tre, quattro briciole, infatti, si arriva solo a chi ha rubato i biscotti. Se le briciole diventano centinaia, occorre capire chi ha svaligiato tutta la credenza. O, peggio ancora, chi ha operato da organizzatore e basista al colpo.