Questa è una storia di seduzione e abbandono. Ex ante. Insomma, uno di quei rapporti amorosi da cui il buon senso ci suggerirebbe di stare distanti. Eppure, il Governo italiano pare deciso a gettarsi anima e corpo in questa avventura. Perché nel giorno in cui Cina e Russia inviano al mondo segnali inequivocabili di equilibri in rapida e drastica mutazione, alzare la cornetta per confermare al Segretario generale della Nato la fedeltà cieca e assoluta dell’Italia equivale a chiudere ogni porta alla ragionevolezza. E al pragmatismo della realpolitik. Una scelta di campo. Legittima. Ma pericolosa. Perché molta narrativa sta miseramente cominciando a mostrarsi nella sua vera luce, a partire dalle sentenze di abbandono della Cina nei confronti della Russia. Titoloni roboanti. Smentite nei fatti da continue astensioni di Pechino in sede Onu, ogni qualvolta andasse al voto una mozione di condanna verso Mosca. Ma ora si è andati oltre.
Mentre Xi Jinping inviava segnali di distensione a Joe Biden, il ministro degli Esteri cinese telefonava al suo omologo russo, ribandendo il sostegno di Pechino: Mosca rafforzi la sua potenza. Per tutta risposta, la controparte ribadiva e sottolineava come Taiwan è parte integrante della Cina. Difficile vendere ancora la favoletta della Russia isolata. Molto difficile. Soprattutto in un contesto che ormai viaggia sul crinale della deterrenza nucleare come base di dialogo. E che, soprattutto, registra la sconsolante assenza dell’Europa da qualsiasi tavolo negoziale. Ognuno per sé, insomma. E la Germania ha dato l’esempio.
Dopo la cessione del 24,9% dell’hub portuale di Amburgo alla controllata statale cinese Cosco Shipping, è stato il turno di Basf a svelare quanto il legame fra Berlino e Pechino vada al di là della mera assonanza fonetica. Il colosso chimico, il più grande del settore in tutta Europa, ha infatti comunicato la sua decisione di ridimensionare in via definitiva livelli produttivi e occupazionali nella madrepatria. Il tutto dopo essere sbarcata proprio in Cina, prima con gli stabilimenti di Nanchino e Jilin e ora con la costruzione di un nuovo mega-impianto per la produzione di glicol neopentilico (NPG) presso il sito di Zhanjiang. Insomma, quando Vladimir Putin – parlando poche settimane fa al Forum energetico di Mosca – vaticinava la deindustrializzazione dell’Europa a seguito della scelta sanzionatoria sull’energia, scommetteva sul sicuro.
E quanto alto sia l’azzardo del Governo italiano nel rafforzare, se possibile, il proprio profilo di aggressività e contrapposizione verso Russia e Cina, lo dimostra un dato appena diffuso dal ministero del Commercio cinese. Nei primi nove mesi di quest’anno, gli investimenti esteri diretti (FDI) nella Cina continentale ha sfondato il controvalore di 1 trilione di yuan, aumentando del 15,9% su base annua. Denominato in dollari, l’aumento è pari al 18,9% e 155,3 miliardi.
Sono quattro le nazioni che hanno operato rendendo possibile questo risultato, trainato da un eloquente +48,6% su base annua della manifattura high-tech con un +27,9% dei servizi del medesimo comparto: Germania, Corea del Sud, Giappone e Regno Unito. Rispettivamente, un aumento degli investimenti del 114,3%, 90,7%. 39,5% e 22,3%. E non stiamo parlando di regimi amici e ideologicamente affini, come possono essere la Russia o la Corea del Nord. Parliamo di nazioni tutte alleate degli Stati Uniti. Nel caso di Londra, addirittura alleati di ferro e ufficialmente impegnati in campagne di boicottaggio dell’ingresso di operatori cinesi nel mercato interno in nome della sicurezza nazionale. Insomma, i proclami sul 5G e su Huawei sono una cosa, la realtà un’altra.
Il nostro Governo pare non capirlo. E non volerlo capire. O, peggio, non poterlo capire. Perché se il memorandum redatto e firmato con la Cina dal primo Governo Conte rappresentava oggettivamente un azzardo dal punto di vista diplomatico, quantomeno per il tempismo e la portata, altrettanto estrema appare la volontà aprioristica di Roma di chiudere la porta a tutto ciò che non rientri nei parametri valoriali e di appartenenza Nato. Perché, appunto, il rischio di seduzione e abbandono è alto. E certificato da parte di quella stessa stampa che proclamava la fine dell’idillio fra Mosca e Pechino: dopo le elezioni di midterm dell’8 novembre, in caso di sconfitta democratica, la posizione statunitense sull’Ucraina potrebbe mutare. E non di poco.<
Non a caso, sia Vladimir Putin che Xi Jinping hanno strategicamente e saggiamente già mostrato a Washington il loro ramoscello d’ulivo. Ovviamente, rendendo visibile la contestuale presenza dell’altra mano sul bottone dell’opzione nucleare. Come nel Dottor Stranamore. Insomma, il Governo Meloni – e con esso il nostro Paese e la sua economia, già tutt’altro che in salute – rischia già a fine anno quella che possiamo definire sindrome da Ferragosto a Kabul. Ovvero, andare a dormire con la certezza di una coperta Nato che copre per bene i piedi e svegliarsi il giorno dopo completamente scoperti. E in balia degli eventi. Esattamente come il Governo afghano filo-Usa, costretto alla fuga a tempo di record dall’avanzata senza ostacoli dei Talebani. A sua volta, resa pressoché ineluttabile dalla decisione di Joe Biden di ritirare le truppe dal Paese.
Se l’America, come appare abbastanza ovvio, tratterà con la Cina, chiaramente Mosca beneficerà dei buoni uffici di Pechino per quanto riguarda la risoluzione della crisi ucraina e la fine del regime sanzionatorio più duro. Perché gli Usa hanno ancora un Pil che per il 70% si basa sui consumi personali. E senza la Cina, il game over è assicurato. A quel punto, Roma si ritroverà con un’America al tavolo delle trattative e con Cina e Russia tutt’altro che ben disposte verso il governo europeo che più di tutti ha mostrato la sua impostazione da falco. In piena recessione.
Proprio sicuri che a sbagliare sia il Governo tedesco con la sua eccessiva apertura a Pechino e non noi con l’oltranzismo atlantista che rischia di portarci dritti verso un letale isolamento economico e commerciale? In medio stat virtus. Esattamente la posizione assunta da Emmanuel Macron in tutta la vicenda ucraina. E nei suoi addentellati di riequilibrio globale.
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