Quell’andamento da penny stock nel grafico è lo spread Btp-Bund nella seduta di giovedì. Sceso fino al minimo intraday di 116 punti base senza ragione. Risalito fino ai 127 della chiusura senza ragione. A un certo punto la variazione era di quasi il 6% di calo. A fine giornata, +2,64%.
Sembra il titolo Nvidia dopo il dato occupazionale Usa della scorsa settimana. Il problema non è lo spread, intendiamoci. Il problema è il timing. Perché è vero che giovedì nulla è occorso sui mercati o nei palazzi della politica per giustificare una simile montagna russa. Ed è altresì vero che, in punta di buon senso, il continuo calo del nostro differenziale a 10 anni rispetto a quello del pari durata tedesco non può essere giustificato solo dall’inabissarsi dell’economia tedesca o dalla percezione di imminente taglio dei tassi che spinge chi investe a cercare rendimento, finché ancora si trova. E come negare che la dinamica di compressione sia cominciata con il disvelarsi del dato sulla maggiore crescita del nostro Paese, il quale però ha portato con sé lo sgradevole effetto collaterale di un deficit al 7,2% anziché al 5,3% contenuto nella Nadef.
I nostri Btp festeggiano forse una manovra correttiva a ottobre? O forse siamo stati a cavallo dell’onda lunga del collocamento record del Btp Valore fino all’altro giorno, esattamente come un ciclista che succhia la ruota all’avversario in fuga sui pedali? Il mio dubbio è un altro. E spiegherebbe questo andamento da ECG tachicardico. Perché, casualmente, l’up and down è avvenuto il giorno seguente alla riunione in cui la Bce ha messo mano all’operational framework (vedi articolo di ieri), di fatto annunciando nuove aste di rifinanziamento a lungo termine e soprattutto un portfolio securities da porre a garanzia della liquidità nel sistema eurozona. Di fatto, un pilatesco off-setting dell’implementazione dei requisiti di capitale che le banche tanto temono.
C’è un problema, però. Non sarà che il mercato, al netto di un Bund non cerca di autore che gioca la sua parte come piatto della bilancia, abbia prima prezzato questa mossa come uno scudo anti-spread strutturale e poi, come spesso accade, abbia letto bene il comunicato Bce? Il quale parla infatti di queste due mosse pro-liquidità dopo la fine del reinvestimento titoli di App e Pepp ancora a bilancio dell’Eurotower. Ovvero, il vero scudo anti-spread. Lo stesso che Christine Lagarde lo scorso novembre ha brandito pubblicamente senza che ve ne fosse motivo, al netto di scadenze statutarie in tal senso già decise e prezzate dai mercati.
Nessun rischio di fiammata, sia chiaro. Ma attenzione alla dinamica sottostante a quella dello spread espressa nel grafico: il Btp decennale benchmark – quello che conta, il fratello furbo – sempre giovedì ha chiuso con un rendimento al 3,67% dal 3,57% della seduta precedente. Tanto. Davvero tanto per un giorno apparentemente senza notizie market-mover. Troppo, in realtà. Che qualcuno sappia, magari in zona Francoforte, ciò che a noi comuni mortali è ancora oscuro? E se quanto letto finora vi avesse lasciato in bocca un saporaccio di anti-patriottismo, date un’occhiata a questo grafico. Fonte Financial Times.
Salario annuale medio nel 2022 indicizzato al 2000 a prezzi costanti e valuta locale. Forse esiste un problema strutturale di dipendenza-schiavitù dal debito, cosa dite? Forse c’è poco da festeggiare un decimale di Pil in più, a fronte di un deficit di quasi 2 punti percentuali in più e di dinamiche salariali simili. Forse, quindi, il nostro spread dipende unicamente dalla Bce. Ma quest’ultima non può stampare buste paga maggiorate. Né bonus. O tredicesime. O contratti di lavoro degni di questo nome. Può solo stampare soldi per far salire il Ftse Mib- Così come la Bank of Japan può stampare moneta per comprare titoli di Stato ed Etf, in modo da mantenere sotto controllo la curva dei rendimenti e garantire al Nikkei quota 40.000. E, soprattutto, la percezione che tutta vada bene. Miss Watanabe può stare tranquilla. I titoli di Stato le garantiscono lo 0,1% e tanta sicurezza. Mentre il suo Fondo pensione o la sua banca giocano con il commercial real estate Usa. E il signor Rossi deve e può avvicinarsi con grande fiducia al Btp Valore di turno, comprarlo col sorriso sulle labbra che si addice a chi, una volta tornato a casa, comincia a preparare la valigia per la crociera. La stessa che il suo stipendio o pensione non gli garantiranno mai.
Italia e Giappone, a tale of two cities. Ma nemmeno troppo. Certo, Tokyo ha la sua valuta. Mentre Roma ha l’euro e dipende dalla Bce. Addio svalutazioni della lira. Quando l’altro giorno scrivevo che il rally del Nikkei è solo una scommessa a leva sulla distruzione dello yen, esageravo? Troppo austriaco? O soltanto troppo realista? Guardate il perché la riunione della Bank of Japan del 18-19 marzo rischia davvero di essere la madre di tutti i market-mover, guardate dove rischia di andare a finire il Nikkei, se solo lo yen si apprezzasse di più del 5%.
E guarda caso, proprio alla vigilia di quell’appuntamento e in ossequio al grafico precedente, il Giappone ha appena salutato l’accordo per aumenti salariali più alti da 25 anni a questa parte. Toyota, Nissan, Panasonic e Nippon Steel sono fra le aziende che hanno dato via libera all’accordo con i sindacati per 28.440 yen (193 dollari) in più al mese in busta paga, di fatto lastricando la strada alla Boj per la tanta declamata uscita dalla politica decennale di tassi negativi. Cosa accadrà, a questo punto?
Forse il redde rationem inevitabile, forse il Minsky Moment nipponico che dimostrerà al mondo comeil Qe non sia gratis e l’helicopter money sia solo una chimera costosa e rischiosa? Ora traslate questa dinamica all’Italia: per quanto si potranno accettare salari da fame ed erosione strutturale del potere d’acquisto, a fronte di ciclici sostegno, redditi di cittadinanza e mancette di vario genere? Finora ha funzionato. E il Covid, paradossalmente, ha dato una mano enorme all’operazione. Ma ora?
Attenzione a cosa andiamo cercando, sventolando quel decimale di Pil in più. Perché potremmo trovarlo.
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