Mentre l’Italia festeggiava i 18,1 miliardi di Btp Valore collocati presso la clientela retail, un campione del mondo di debito decideva di alzare l’asticella. Il problema è che, come al solito, i pochi media che hanno riportato la notizia, si sono ben guardati dal mostrare la Luna. E hanno tenuto puntate le telecamere unicamente sul dito. L’Argentina, alle prese con un’inflazione a tre cifre e la ciclica crisi sociale, ha infatti operato un rifinanziamento record del suo debito in pesos. Un roll-over da oltre 30 miliardi di euro, talmente ben riuscito da permettere al governo di Buenos Aires di incassare anche nuovo finanziamento netto positivo, stando al resoconto de Il Sole 24 Ore. E noi festeggiamo 18,1 miliardi del Btp Valore? Dilettanti.



C’è un problema, però. Quello swap segna in realtà un punto di disperazione terminale per la situazione del Paese sudamericano. E di svolta politica. L’operazione ha sì tagliato le rimanenti maturities sul debito in pesos per il 2023 del 64%, ma il nucleo forte della mossa si sostanzia unicamente nella riduzione dei pagamenti dovuti fra giugno e settembre, ottenendo un’accettazione del 78% da parte dei bondholders. Insomma, un altro distressed exchange con l’unica finalità di tenere chiuso il portafogli fino alle elezioni di fine anno, evitando un default selettivo già paventato da S&P Global. L’ennesimo calcione al barattolo.



C’è però – appunto – un lato meramente politico della vicenda che merita attenzione. Perché l’Argentina ha avuto l’ardire di compiere un’operazione simile nel pieno di una crisi di liquidità enorme e con la fiducia della popolazione ai minimi? Perché all’inizio di giugno, pochi giorni prima dello swap, qualcuno aveva teso la mano a Buenos Aires. Una mano piena di cash. E non il Fmi, silente di fronte all’ennesimo gioco delle tre carte di accountability sulle finanze pubbliche. Bensì, la Cina. La quale, dopo aver incassato la firma di adesione del Governo argentino alla Belt and Road Initiative, ha visto il numero uno della Pboc, Yi Gang, offrire al ministro dell’Economia argentino, Sergio Massa, un bell’ampliamento della swap line valutaria fino a 10 miliardi di dollari. Con finalità operative. E guarda caso, il 31 maggio il Governatore della Provincia della Terra del Fuoco, dell’Antartide e delle Isole dell’Atlantico del Sud firmava il decreto con cui si garantiva luce verde al progetto di hub logistico polivalente alla Shaanxi Coal and and Chemical Industry. Insomma, in barba all’ATS (Antarctic Treaty System), Xi Jinping sta tramutando sempre più la disastrata Argentina nell’avamposto cinese nell’Emisfero Sud.



Ovviamente, sui media finisce la base cinese a Cuba, molto più spendibile a livello di impatto emotivo e capace di generare copioni da Baia dei porci 2.0 per Netflix. La ciccia però sta altrove. E quello swap apparentemente folle nella tempistica e nella finalità unicamente di dilazione delle criticità su uno stock di debito ormai ingestibile, parla chiaro. E parla cinese. Signori, qui si parla di carne e sangue. Di economia reale. Di porti e container. Di camalli e di merci. Di supply chain globale. Utilizzando una formula da materialismo poetico verghiano, la roba.

Mentre i nostri media inseguono la Premier in Tunisia, guardandosi bene dal sottolineare come il Fmi stia generando una crisi ammazza-Europa da innescare in tandem a quella ucraina, ecco che dai porti di Los Angeles e Long Beach arriva la notizia che nessuna azienda vorrebbe sentire. La International Longshore and Warehouse Union ha infatti proclamato uno sciopero a oltranza denominato “slow and go”. Di fatto, la forza lavoro dei due mega-hub commerciali della West Coast sta rallentando in maniera sempre più drammatica le operazioni di attracco e scarico, al punto da aver già generato un collo di bottiglia il cui controvalore a livello di merci bloccate è salito a 5,2 miliardi di dollari. E non basta. La situazione è talmente seria che si starebbe già pensando a una deviazione delle rotte verso East Coast e Golfo, un’ipotesi che già oggi sconta però le criticità legate alla navigabilità del Canale di Panama causa siccità. E attenzione: se anche questo ostacolo venisse rimosso, i tempi di trasporto aumenterebbero fra i 12 e i 18 giorni.

Insomma, c’è il rischio di una silenziosa crisi della supply chain globale. Resa ancora più potenzialmente letale da due aspetti. Il primo lo mostra questo grafico, decisamente poco incline nei suoi contenuti a interpretazioni angolari o di prospettiva: con le aziende sedute su 200 miliardi di scorte in eccesso, già oggi un bullwhip effect o “effetto frusta” sulla catena di prezzi e domanda è tutt’altro che da escludere.

Combinate quella dinamica con quanto in atto negli hub portuali della West Coast e forse un sano hedging preventivo potrebbe rivelarsi esiziale. Perché nessuno si scordi il secondo aspetto: al netto della possibile natura di cortina fumogena strumentale, la narrativa ufficiale delle autorità sanitarie cinesi – riportata dall’organo di informazione statale, Global Times – parla dell’arrivo alla fine di questo mese della variante Covid denominata XBB, talmente contagiosa da essere in grado di produrre 65 milioni di contagi alla settimana. Se, come accaduto nel 2020, i porti cinesi andassero anche solo parzialmente in lockdown, cosa accadrebbe all’intera supply chain mondiale? O forse occorre un po’ di sana, drastica restrizione dell’offerta per contrastare l’inflazione, stante l’impossibilità di continuare ad alzare i tassi senza schiantare il Sistema?

D’altronde, l’Ue è già in recessione tecnica e i dati macro cinesi paiono smentire il paradigma del re-opening, lo stesso che per mesi ha sotteso l’unicorno globale del soft landing. Insomma, al diavolo equities e derivati. Qui si tratta di economia reale. Di aziende. Grandi e piccole. E proprio le Pmi dovrebbero accendere un radar su quanto sta accadendo negli Usa, sperando che la Cina non precipiti in lockdown e la situazione in Ucraina non conosca un’escalation infrastrutturale. Altrimenti, altro che soft landing.

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