Ci sono processi sui mercati che accadono in silenzio, senza dare nell’occhio. Certo, chi per lavoro passa le sue giornate davanti a uno schermo nel tentativo di fare soldi per sé e per gli altri, sa cosa sta avvenendo. Ma il resto del mondo generalmente lo ignora. E, occorre dirlo, vive tranquillamente in questa sua condizione. Bene, questo grafico ci mostra come solo la scorsa settimana oltre 2 triliardi di controvalore in obbligazioni con rendimento negativo siano sparite, tornando “in verde” a livello di yield. Oggi il totale di carta con premio sotto zero, al mondo, è pari a 11,6 triliardi di dollari, il minimo da maggio e 5,4 triliardi meno dei massimi solo dello scorso agosto. Giustamente, l’uomo della strada ignora situazioni simili. E, soprattutto, non vede la sua vita minimamente intaccata da dinamiche di mercato che paiono figlie legittime di alchimie finanziarie.
Non è così, però. Quel numero non solo conta, ma deve far paura, da un certo punto di vista. Perché è all’interno di un trend più ampio, una dinamica che vede i mercati fuggire dall’obbligazionario dopo mesi e mesi di afflussi record per timore di una recessione alle porte e conseguente fuga dalle equities. Ora, qualcosa è cambiato: big rotation? Non esattamente. Il rischio, decisamente alto, è quello del classico last hurrah, l’ultima fiammata di entusiasmo prima che le luci si spengano e la festa sia dichiarata ufficialmente finita: ovvero, basta scommettere su un quarto di punto legato a investimenti sul reddito fisso, basta pietire un premio di rischio appena superiore allo zero, lanciamoci nell’ultimo giro di giostra sul grande casinò. Ovvero, la Borsa.
Certo, stando alle proiezioni, gli algoritmi dei grandi fondi speculativi oggi avrebbero già liquidato l’80% delle loro posizioni in debito sovrano (Usa, Germania, Giappone e Regno Unito) dal picco di agosto, quindi formalmente la loro ondata ribassista non avrebbe più magnitudo residua in grado di spingere ancora molto al rialzo i rendimenti, ma il livello di crescita degli yield già oggi è in linea con quello che appare la peggiore sell-off da fine 2016. Dalla fine di agosto, il Treasury a 10 anni, ad esempio, ha preso qualcosa come 42 punti base di rendimento, quasi senza che alcun accadimento macro particolarmente eclatante facesse capolino sui giornali per giustificare un movimento simile. Stessa dinamica per il Bund tedesco.
E ora? Il problema, più che all’interno dell’universo sovrano, sta in quello corporate: se la dinamica di prezzatura continuerà, quanti di quei miliardi e miliardi di carta aziendale emessa con il badile e con rating a cavallo fra investment grade e junk continuerà a beneficiare delle condizioni favorevoli del primo? E quanta invece precipiterà dal limbo all’inferno della valutazione spazzatura, con tutto ciò che essa comporta? E attenzione, perché il 90% di quelle obbligazioni già oggi viaggia su prezzatura non investment grade, ma può comunque vantare una copertura nominalistica da parte delle agenzie di rating che lo mette al sicuro da tagliole mortali: se i rendimenti andranno fuori controllo, magari in comparti sensibili come quello energetico, cosa eviterà che la palla di neve diventi valanga?
Ad esempio, in Europa nessuno vede il nuovo Qe della Bce come possibile game changer a favore di una nuova compressione degli spread, visto che un recente report della Dpam valuta in circa 5 punti base di ritracciamento il contributo degli acquisti dell’Eurotower alla dinamica generale. Poco, troppo poco. Praticamente, nulla. Anche perché, solo un mese fa, non era certo quella della compressione degli spread la priorità della Bce. Tanto più che, anzi, una politica di supporto come quella presentata da Mario Draghi prima dell’addio potrebbe sortire l’effetto contrario, ovvero offrire argomenti a un aumento dei rendimenti, dando l’impressione di un possibile effetto di boost alla crescita e di riduzione dell’incertezza generale.
Per ora, la questione appare relegata a un angolo del mercato, roba da addetti ai lavori. Ma attenzione, perché al netto delle tensioni sulla ex-Ilva, il nostro spread sul Bund è cominciato a risalire. Niente di drammatico, per carità, ma un sintomo, poiché avviene in periodo di conclamata schermatura da parte della Bce, almeno fino alla prossima estate e senza alcuna ipotesi/prospettiva di aumento dei tassi di riferimento almeno fino all’autunno 2020. Il problema è che, in generale, il controvalore di bond emessi negli ultimi trimestri appare senza precedenti, quindi uno scossone in quel comparto rischia di tramutarsi nel classico canarino nella miniera.
Chiunque, stante il regime favorevole delle Banche centrali, ha emesso debito per finanziare attività più o meno speculative o di sopravvivenza, operando come se quello status quo non dovesse mai cambiare. In effetti, i nuovi Qe attivi in Usa e Ue ci dicono che la musica appare la stessa, ma il mercato potrebbe prezzare altro, in un momento di tensione alle stelle come questo: e se i programmi messi in campo finora, fattivamente o solo annunciati, non fossero più sufficienti, non fosse altro per l’assenza del fondamentale carattere di sorpresa che avevano i primi cicli di allentamento quantitativo? E se il mercato e la sua dipendenza da liquidità fossero tali da esacerbare in nuce ogni dinamica di supporto, quindi obbligando i soggetti interessati a mosse shock che – però – bilanci alla mano non possono susseguirsi in eterno, in un crescendo rossiniano di utilizzo del bazooka monetario?
Attenzione, poi, ai nostri conti: il risparmio generato sul pagamento degli interessi garantito dal calo netto del nostro spread dopo l’estate ha giocato una parte importante nell’impalcatura del Def in discussione. E se, quasi di colpo, quella dinamica dovesse in qualche modo invertirsi o, quantomeno, perdere il suo carattere di stabilizzazione acquisita? Magari, con una campagna elettorale in primavera…