Endgame. Finale di partita. La buonanima di Samuel Beckett mi perdonerà. Ma il finale di partita è davvero vicino. Ma nessuna fine del mondo. O del Sistema. Semplicemente, fine della pantomima. Una condizione che porta con sé la sgradevole conseguenza del ritorno alla realtà. Status che non prevede mai pasti gratis. Non per tutti, almeno.
Quello rappresentato nel grafico è il dato PMI manifatturiero ponderato. Globale. Piaccia o meno, recessione.
Certo, qualcuno potrebbe dire che gli Usa sono cresciuti del 4,9% nel terzo trimestre. E stante un Pil statunitense che dipende al 70% dai consumi, il tutto si condensa in un’economia talmente forte da reggere senza battere ciglio i rialzi della Fed.
Questo secondo grafico ci mostra come. E attenzione, il trend mostrato non è relativo a delinquencies su carte e debiti. Bensì, hard delinquencies. Ovvero, Già oltre i 90 giorni. Siamo al massimo da 12 anni per le carte di credito. Sintomo che l’americano spende. E pompa il Pil. Ma spende a debito. Un debito ingestibile, stante APR applicata su quelle moltiplicatrici di illusioni ben oltre il 20% medio.
Endgame. Ora deve iniziarne un’altra di partita, dopo l’ennesimo azzeramento. Come quando da bambini, l’uscita dal campo di un giocatore richiamato a casa dalla mamma, comportava l’automatica ripartenza del gioco da 0 a 0. Ecco, quest’altro grafico mette tutto in prospettiva. I soli interessi annuali sul debito Usa nella giornata di ieri hanno superato per la prima volta in assoluto quota 1 trilione di dollari. Per l’esattezza, 1,027. Questo su uno stock totale di 33,7 trilioni di dollari.
Si tratta della seconda voce del budget Usa, battuta solo dalla previdenza. Persino la Difesa viene dopo. Nei prossimi 12 mesi, 6 trilioni di quel debito andranno a maturazione. Debito contratto ai vecchi tassi. Che ora viene atteso al varco da roll-over e rifinanziamento in base al new normal Fed del 4-5%. Se fra 12 mesi, i tassi Fed fossero ancora al 5%, quel trilione di dollari di interessi annuale salirebbe a 1,3 trilioni. Se entro due anni, il debito totale arrivasse a 40 trilioni (scenario standard ai ritmi attuali) e i tassi fossero ancora su questi livelli, entro il 2026 gli interessi annuali sul debito Usa sarebbero di 2 trilioni. Tradotto, endgame.
Semplicemente, occorre cominciare a tagliare. All’inizio, gradatamente. Poi, però, serverà l’emergenza. Una crisi repo, magari. Uno shock esogeno. Qualcosa che traduca quel trend del PMI manifatturiero globale in depressione conclamata. Un altro Covid, per capirci. Perché non si può pensare solo al debito dello Stato. Occorre fare qualcosa anche per quello di Mr. Smith, ormai schiacciato da interessi e penali su delinquencies sempre più simili a non-performing loans. E tutto possono le banche Usa, tranne sommare alle già quasi trilionarie unrealized losses sui portfolios di investimento azionario e obbligazionario, persino un’esplosione di sofferenze che impongano accantonamenti. Endgame, insomma. Ma fino al nuovo calcio d’inizio. Ma quali saranno le formazioni in campo? E con quali tattiche, schemi e regole si giocherà?
Conviene chiederselo. Perché all’improvviso, Joe Biden e Xi Jinping decidono di incontrarsi a San Francisco. La città dei diritti. E oggi degli homeless. Nel pieno di una prova tecnica di caos mediorientale. Ma c’è dell’altro che sottende quell’incontro, anticipato da un meeting tra il Presidente cinese e la comunità del business. Quattro mesi di vendite di titoli azionari del Dragone meritano risposte. E qualche promessa.
Nel frattempo, a fare notizia è il primo passaggio in negativo nella storia del dato trimestrale degli investimenti esteri diretti (FDI) in Cina. Già squillano le trombe del Minsky Moment. Credibili quando quelle del default di Evergrande. Ma qual è la realtà? Sta in questo grafico: la Cina oggi controlla (via proprietà od operatività) 105 porti nel mondo. E la sua flotta da guerra ha superato quella a stelle e strisce, 351 scafi contro 294. Il sorpasso? Nel 2015. Mentre il mondo occidentale giocava coi derivati post-Lehman. E guardava altrove.
E se quella ragnatela globale di infrastrutturazione portuale (con implicazioni dual-use militari) pare prodromo di un’idea di talassocrazia 2.0, ecco che questo ultimo grafico illustra l’opzione Heartland della strategia cinese. La Belt and Road Initiative. La Nuova Via della Seta, insomma. La stessa che il Governo italiano aveva deciso di abbandonare a brutto muso, stracciando il memorandum del 2019. E che ultimamente, invece, pare sia scesa nel livello di priorità.
Se mostri i denti a Pechino per ingraziarti lo stesso personaggio che il Principe rosso lo incontrerà a Frisco, forse hai capito pochino di come gira il mondo. O no? La Cina è diventata il creditore globale numero uno, qualcosa come 1.300 miliardi di dollari di prestiti in essere verso Paesi a medio-basso reddito. Un enorme bancomat a cielo aperto, un Fmi meno propenso all’uso di Troike. E più interessato a infrastrutture e materie prime. Perché, piaccia o meno, la Cina ha un unico ambito in cui il comunismo non mette piede: le costruzioni. Palazzi, città o autostrade poco importa: il potere in quel Paese sta nelle infrastrutture, il denaro sta nelle infrastrutture. E infatti, Alibaba può sparire dalla sera alla mattina. Evergrande e Country Garden, no.
Esternalizzare il modello ormai esausto in patria, ecco la logica economistica della Belt and Road Initiative. Propedeutica alla conquista strategica in geopolitica, a colpi di swap lines e acquisizioni. Come mostra impietosamente quella linea rossa che attraversa e abbraccia l’intero mondo, come una ragnatela.
Nessuno gridi al Minsky Moment per quel dato FDI. In un Paese a tassi bassi che si confronta con il resto del mondo a tassi alti, gli outflows sono il minimo sindacale. Transitorio. Ma i tassi torneranno verso lo zero in termini reali anche in Occidente. Prima di quanto si pensi. Quella rete globale resta. E l’Europa? Impone sanzioni e dazi consigliati da Washington. La quale, nel frattempo, tratta e riscrive le regole. Prendiamone atto.
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