Volete la riprova del perché, a mio avviso, è totalmente inutile votare per questa tornata di rinnovo delle istituzioni europee? Per il semplice fatto che, ovunque, si vota in realtà per un referendum sui governi nazionali in carica e su quelli che verranno, su politiche interne, su beghe di cortile: di cosa accadrà realmente a Bruxelles, di quali siano dinamiche e alleanze in gioco, nessuno sa nulla. E a nessuno interessa nulla. Da Berlino a Roma, da Londra a Parigi passando per Madrid, ci si cura unicamente dell’orticello.



Non prendiamoci in giro, basta ascoltare cinque minuti – andare oltre è masochismo puro, roba che merita un encomio – di un qualsiasi talk show: a parte le solite trite idiozie sull’Europa dei banchieri – fra cui annoveriamo quelli che comprano il nostro debito e la Bce che sta evitando che lo stesso esploda attraverso lo spread sui titoli – avete sentito una singola proposta di reale cambiamento della governance, qualcosa che entri nel merito? No, salvo rarissime eccezioni, roba da Wwf. O probabilmente io sono stato sfortunato nel mio zapping. Lo ammetto, ho smesso di guardare trasmissioni politiche. Sia quelle del mattino, sia gli approfondimenti del pomeriggio, sia gli show serali (perché tali sono, alternative di poco meno ridicole del Grande fratello). Da qui a inizio giugno sono tranquillo, finché RaiSport manderà in onda i playoff di basket, la mia prima serata è garantita. Dopo le 22, telefilm polizieschi americani su TopCrime.



Mi spiace, ma l’unico modo per forzare la politica e i media a cambiare è abbandonarli al loro destino, portarli lentamente all’inconsistenza e all’irrilevanza da mancanza di audience: qualche emittente rischierà di chiudere, stile Radio Radicale? È il mercato, bellezza! L’emittente dei Radicali era utile fino a 15 anni fa, ora non serve più a nulla e impiega 75 persone, roba da Cnn: per cosa, mandare in diretta i congressi di partito e qualche seduta della Camera o del Csm? Con lo streaming ormai trovo tutto in diretta in Rete. Gratis, senza oneri per lo Stato. Perché Radio Radicale deve beneficiare di un trattamento di favore, rispetto agli altri organi di stampa che sono incappati nel medesimo destino (e con loro i dipendenti, giornalisti, tecnici e amministrativi), visto che il servizio che offre ormai è desueto rispetto a quanto la tecnologia ci garantisce, pressoché senza spese? Emma Bonino attacca la politica del Governo a ogni piè sospinto, tacciandola di essere assistenzialista. Sono d’accordissimo con lei: cominci allora dalla radio di famiglia, se vuole dare il buon esempio. D’altronde, nelle mitiche “3 elle” dei Radicali, accanto a “liberali e libertari” non compariva anche “liberisti”? Ma, come ho detto, questa logica vale per tutti.



Oggi la Gran Bretagna andrà alle urne, come da tradizione di giovedì. E lo farà dopo che una disperata Theresa May, in piena modalità rappresentante di pentole anti-aderenti, ha cercato di restare aggrappata alla poltrone per l’ennesima volta, spacciando al Paese un nuovo accordo da sottoporre dopo il 3 giugno al Parlamento al fine di sbloccare l’impasse sulla pantomima dell’addio all’Europa. Di fatto, pare un fallimento annunciato, poiché il leader laburista, Jeremy Corbyn, ha già detto che il suo partito voterà “no”. Ma cosa contempla quella nuova proposta, al fine da renderla irresistibile e garantire alla May ancora un po’ di tempo fra i velluti e le poltrone in pelle del 10 di Dowing Street? La possibilità di un secondo referendum sul Brexit. Di fatto, la possibilità in stile Irlanda chiamata a votare sul Trattato di Lisbona di rivotare fino a quando non vincerà il fronte del Remain, come vogliono i mitologici mercati.

Reazioni popolari? Zero, tutti troppo impegnati ed eccitati per l’en plein delle squadre di calcio inglesi nelle due competizioni continentali. Panem et circenses, anche Oltremanica. Io cosa vi avevo detto fin dall’inizio, se non che quella pagliacciata di trattativa fra Londra e Bruxelles era nient’altro che un mezzuccio per inviare segnali politici per conto terzi a gente che doveva essere rimessa in riga? Trovate più un singolo esponente del Governo italiano che ammetta di perseguire l’uscita da euro e Ue come obiettivo politico in maniera palese? È più facile trovare un ago in un pagliaio o un liberale in Forza Italia. D’altronde, la logica è consolidata: alimentare nella gente sempre nuove false aspettative, tanto per tenerla impegnata con la speranza del “momento storico”, del grande cambiamento. Quello che intendeva offrire la May con il Brexit, quello del governo giallo-verde, quello prima di Macron e poi dei “gilet gialli” in Francia, oggi sostituiti per l’ennesima volta dall’underdog sistemico e strutturale della politica d’Oltralpe, quella Marine Le Pen che non vince un’elezione che conta manco fosse del Pd.

E il caso Austria? L’Fpo non doveva ribaltare con un calzino il piccolo Paese alpino, fondamentale com’era negli equilibrio del governo di coalizione con i popolari dell’Ovp di Sebastian Kurz? Ieri hanno giurato, a tempo di record, tutti i ministri tecnici chiamati a sostituire quelli della Fpo, dimissionari in massa per protesta. Crisi terminata. Il tutto, in 72 ore o poco più. I nostri sovranisti alla Sacher li hanno lasciati giocare per un po’, li hanno lasciati sfogare con leggi meramente simboliche e che parlano alla pancia del Paese – tipo divieto del velo – e poi li hanno gettati via con una carta di merendina, come un calzino bucato e rattoppato già troppe volte. In tre giorni l’operazione si è conclusa, tutti alle urne a settembre.

Qualcuno dalle nostre parti, fra un cambio di felpa e l’altro, dovrebbe riflettere molto su quanto accaduto al di là del Brennero. Pensate che il voto a valanga che oggi Nigel Farage e il suo Brexit Party otterranno alle urne, in maniera scontata, servirà a qualcosa, a livello di equilibri a Bruxelles, quelli reali? Sapete in quale gruppo militerà il Brexit Party all’Europarlamento? Con chi farà fronte comune e con quali posizioni, ad esempio sul Budget? No. E per il semplice fatto che, formalmente, a fine ottobre i suoi eletti prepareranno il trolley e prenderanno il treno per tornare a Londra, visto che il Regno Unito dirà addio all’Ue entro il 31 di quel mese. Voi ci credete? Signori, l’Ue può piacere o non piacere, ma non è un’appendice di palazzo Chigi o di Westminster e del Bundestag: è una macchina enorme, potente, ricca. Ma con sue dinamiche e regolamenti, con schieramenti in campo ed equilibri di cui conviene fare parte (criticamente e duramente, quando serve), se non si intende seguire la strada britannica.

Noi, siamo sinceri, di cosa accade a Bruxelles non sappiamo nulla, se non quelle misure spot o choc che vengono riportate, con versioni di parte e di comodo, dai nostri rappresenti, al fine di magnificare o maledire l’Europa in chiave di consenso interno. Per questo vi dico che è inutile questo voto, se non per sperare di smuovere qualche sasso fra piazza Colonna e palazzo Giustiniani. Di fatto, domenica siamo chiamati a votare un proxy, una simulazione, uno stress test del prossimo voto politico: lasciamo stare l’Europa, la quale ha mille colpe. ma non quella – tutta nostra – di avere una classe politica che, legislatura dopo legislatura, decade di qualità come un materiale radioattivo ormai esausto. Ed esattamente come per i talk show politici, la colpa è del pubblico che la premia con il voto invece che ribellarsi e chiedere di meglio. La tv offre ciò che la gente chiede, lo stesso vale per il Parlamento o i dibattiti politici: vogliamo la rissa, il turpiloquio, il sangue simbolico dello scontro fra Guelfi e Ghibellini. Come possiamo essere credibili, quando poi arriviamo sul baratro come nel 2011 e ci mettiamo a piangere?

E attenzione, nessuno ve lo dirà, ma già da qualche mese, l’Italia ha due governi. Uno, fantoccio, che finisce quotidianamente sui giornali con i suoi provvedimenti-spot e le sue litigate, un altro – il triumvirato di cui vi ho già parlato – che governa parallelamente e silenziosamente il Paese, accompagnandolo verso il guado autunnale. Quando il problema non saranno le clausole di salvaguardia per evitare l’innalzamento dell’Iva, ma la tenuta stessa dei nostri conti, a fronte di un quadro che forze avverse all’Europa vogliono vedere mutato in tempi rapidi. E repentini. Ora che immagino abbiate finalmente capito che la mia teoria in base alla quale il Qe della Bce nei confronti del nostro spread non è mai finito, riprova il fatto che sia già rientrato nella sua placida area di stagnazione a 270, dovete andare oltre e pensare a cosa davvero accadrebbe se qualcosa andasse fuori giri nella nuova Eurotower del post-Draghi. E se, per caso, quel cambio di forward guidance fosse benedetto da istituzioni europee che avessero visto prevalere, come al solito, il blocco istituzionale di Ppe e Pse senza una forte componente di interdizione italiana (mai così isolati dai nostri partner, grazie a questo governo), con i sovranisti intenti a lucidare i trofei di splendide percentuali divenute però, alla prova dei fatti, solo inutili medaglie da mostrare in patria per rese dei conti tutte interne.

Se mutasse in qualche modo il principio di reinvestimento dei titoli in detenzione, sarebbe una catastrofe. Perché alla ri-prezzatura che il mercato opererebbe immediatamente sul nostro debito si unirebbe anche l’immediato carico da novanta dell’extra-premio di rischio implicitamente richiesto per detenere quella carta: e la riprova ce l’avremo a breve, nei prossimi due mesi, quando saranno circa 60 i miliardi che dovremo emettere e piazzare sul mercato. Se si arriverà, come immagino, a un’escalation della pantomima Usa-Cina (avete visto che retromarcia a tempo di record a compiuto Washington su Huawei, a proposito?) e qualche “danno collaterale” sarà inevitabile per proseguire la strada di avvicinamento al quarto ciclo di Qe ufficiale su scala mondiale, state certi che i primi sulla linea del fuoco saremo noi.

Non foss’altro per due ragioni: siamo abbastanza sistemici da far rumore e fragili da sbandare subito e, soprattutto, relativamente isolati da non aver alleanza serie da mettere sul tavolo, a mo’ di minaccia. A quel punto, gli scherzi dello spread che sale di 10 punti base e fanno gridare la Gruber o Mentana all’apocalisse saranno finiti, a quel punto saranno guai reali. Perché se per caso si arrivasse alla necessità di uno shock e alla conseguente scelta del capro espiatorio da sacrificare, state certi che le banche francesi scaricherebbero un po’ di quei 285 miliardi di debito italiano che hanno in pancia. E con una Bce senza più Draghi e magari con un “falco” alla guida, la quale potrebbe anche cominciare a inviare all’esterno segnali tutti da interpretare, senza per forza operare realmente sulla guidance ufficiale, blindata da SuperMario almeno fino alla prossima primavera. A quel punto, si muoverebbero le big guns. Anche con i tassi fermi fino a inizio 2020 e i reinvestimenti di fatto invariati nella loro capital key.

Capite perché è inutile andare a votare domenica, se lo si fa – come stiamo facendo – con l’animo di chi si approccia a un mega-sondaggio sul Governo nazionale? Il mondo sta letteralmente impazzendo, la Boeing l’altro giorno ha dichiarato che, stando ad analisi più approfondite, l’incidente al velivolo della Ethiopian Airlines potrebbe essere stato causato dalla collisione con un uccello. E la Borsa ci ha creduto, talmente la realtà sia ormai una variabile indipendente! E mettete pure via i cappotti, perché a confermare l’arrivo della primavera ci ha pensato ieri il Dipartimento di Stato, con la sua annuale accusa a orologeria contro Assad per l’uso di armi chimiche.

Attenzione, in un mondo così può davvero succedere di tutto, se si scherza con il fuoco. E per di tutto, intendo qualcosa di più serio persino di Danilo Toninelli titolare di un dicastero.