Che Governo italiano e istituzioni Ue fossero destinate allo scontro autunnale, sinceramente non stupisce. E la ragione è unica, al netto dei vari dossier che vengono messi in campo e dipinti come casus belli: il rinvio della decisione sul Mes, essendo l’Italia l’ultimo Paese chiamato a quel passaggio parlamentare che – di fatto – appare vincolante all’operatività del Fondo, in caso di necessità della sua attivazione. Ma attenzione a dare troppa importanza all’argomento. Perché se da un lato anche le pietre sanno che l’unico, reale discrimine in sede europea sta nelle scelte della Bce, dall’altro occorre prendere atto dell’argomento con cui Il Sole 24 Ore ha aperto la sua edizione di domenica. Ovvero, Covid e guerra hanno cambiato il volto della catena di fornitura industriale, privilegiando quella interna e di breve distanza. Così, a freddo. O forse no.
Il grafico ci mostra una dinamica accaduta proprio sul finire della scorsa settimana: per la prima volta dal 2003, gli Usa importano più merci dal Messico che dalla Cina. A oggi, i beni che Washington ottiene da Pechino pesano per circa il 14% del totale. Solo nel 2017, quella percentuale era del 22%.
Per 14 anni, la Cina è stata il top partner commerciale Usa. Oggi quel ruolo è appannaggio di Messico e Canada. Ma non basta. Se gli Usa proseguono la loro politica di restrizione nella fornitura di micro-chip alla Cina, la decisione di quest’ultima di vietare l’uso di iPhone ai dipendenti governativi ha inviato un chiaro segnale in Borsa ad Apple. E, di conseguenza, al Congresso. Siamo di fronte a una guerra commerciale o all’ennesima baruffa chiozzotta, il cui scopo principale potrebbe essere quello di indebolire definitivamente la tenuta del vaso di coccio europeo? D’altronde, la “waiver’s war” del commercio scatenata da Donald Trump è ancora fresca nella memoria dei più attenti: apparentemente, Washington e Pechino intendevano distruggere a vicenda le proprie catene di approvvigionamento. In realtà, grattando sotto la patina di esenzioni nascoste nei vari pacchetti tariffari, l’unico soggetto a rimetterci – proprio in ossequio alla supply chiain – fu l’Europa. Il Covid, poi, inferì il colpo letale.
Ora, pensiamo un attimo a quanto appena accaduto al G20 in India. Giorgia Meloni ha ratificato in sede ufficiale lo stop alla collaborazione con la Cina in seno al progetto di Via della Seta. Una scelta simbolica. Molto netta. E al netto della negazione riguardo pressioni Usa, giova notare come né Francia, né Germania intendano dar vita a mosse simili verso Pechino. Anzi. Quali rassicurazioni ha ottenuto palazzo Chigi dalla Casa Bianca, in tal senso? Citadel si riempirà di Btp? Perché quanto avvenuto a New Delhi si configura come palese discesa in campo del nostro Paese in una potenziale guerra commerciale globale, qualcosa più di una scontata e formale scelta di fedeltà atlantica. Un azzardo. Quasi Il Principe contro L’arte della guerra. Machiavelli contro Sun Tzu. Nel caso, altro che dossier ITA.
E attenzione, perché sottotraccia le placche tettoniche stanno muovendosi rapidamente. E in maniera drastica. Altro giro, altra narrativa che – in punta di piedi – lascia spazio alla realtà. E al realismo. Nonostante la retorica bellicista delle nazioni riunite nell’Ecowas, infatti, la giunta golpista e filo-russa del Niger avrebbe di fatto ottenuto l’implicito riconoscimento nientemeno che dello Stato europeo che maggiormente spingeva per un’azione militare di ripristino dello status quo. Stando a fonti non smentite di Al Jazeera, la Francia starebbe infatti negoziando il ritiro di parte dei suoi 1.500 soldati di stanza in Niger e lo starebbe facendo direttamente con i vertici militari al potere a Niamey. La realtà, chiaramente sparita a tempo di record dai giornali, pare quindi quella di un Niger fermamente in mano russa. Quantomeno a livello di proxy. E questo significa che il Paese da sempre naturale ombelico di transito dei flussi di gas nigeriani verso gli hub di stoccaggio ed esportazione algerini ora è sotto controllo di Gazprom. Esattamente come l’utility energetica di Algeri.
Ma attenzione, perché in contemporanea con i colloqui, ecco che nella provincia francese del Sahel nota come Mali, casualmente torna in azione un gruppo affiliato ad Al Qaeda: 64 morti in due attentati, fra civili e militari. Il messaggio ai maliani? Non fate come il Niger. Tutto questo mentre il prezzo del gas subisce un’altra fiammata ad Amsterdam, dopo che dall’Australia è arrivata la notizia dell’avvio dello sciopero nei due hub LNG della Chevron. E a differenza del passato recente, questa volta il rischio di una nuova crisi energetica invernale ha raggiunto giocoforza anche i media ufficiali. Tanto che il Governo già pensa a bonus e sostegni. Cui, per ora, manca però la copertura finanziaria. E in tal senso, attenzione a quanto dichiarato l’8 settembre da Serghei Lavrov alla Tass. Il ministro degli Esteri russo, infatti, ha voluto salutare l’inizio del lavori del G20 in India con questo messaggio rassicurante: La Russia ha informazioni relative a tentativi di far saltare i gasdotti Turkish Stream e Blue Stream nel Mar Nero. E guarda caso, la dichiarazione finale giunta da Nuova Delhi non conteneva la condanna dell’operato russo in Ucraina, bensì solo un generico riferimento all’integrità degli Stati. Ovviamente, solo una casualità. Ma che deve far riflettere. Ancora scottati dal botto subito da Nord Stream, altra notizia con data di scadenza in modalità yogurt, una volta grattata via la patina di vernice filo-Nato, a Mosca devono aver deciso di giocare d’anticipo.
Esistono davvero piani ucraini in tal senso? Poco importa. Perché paradossalmente, a far più paura è l’ipotesi di una false flag russa in tal senso. Mosca pare, infatti, aver voluto mandare in onda lo spoiler di quanto fragile possa essere il regime sanzionatorio occidentale sulle sue fonti energetiche. Se fra qualche settimana dovesse arrivare la notizia di un sabotaggio nel Mar Nero, tale da sospendere o limitare i flussi, dove finirebbero le quotazioni? Ovviamente, l’Europa ha l’alternativa pronta. Vero?
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