L’ombra lunga della seconda ondata di Covid copre tutto. Da un certo punto di vista, potremmo anche dire giustamente. Ma attenzione, perché è proprio in questi momenti caratterizzati da eventi catalizzanti che le trame geopolitiche si delineano, sottotraccia e nel silenzio generale. È il caso del Caucaso, ad esempio. Più precisamente del conflitto in Nagorno-Karabakh, soltanto formalmente fermato da una tregua sottile come la carta velina. Qualcuno, infatti, da quelle parti pare decisamente intenzionato a gettare benzina sul fuoco.
Stando a quanto denunciato dal Wall Street Journal e dall’ex ambasciatore armeno in Italia, Sarkis Gazaryan, oltre 4.000 militanti jihadisti provenienti da Siria e Libia e fedeli ad Ankara avrebbero raggiunto la regione per fornire supporto bellico alle forze dell’Azerbaijan. Il tutto, ovviamente, nel silenzio generale. Anche perché il tutto sta accadendo, almeno a livello di autorità europee, nel pieno di una nuova e parossistica ondata di russofobia legata al caso Navalny, tanto che l’Ue si è detta pronta a sanzioni mirate contro entità di Mosca come reazione al presunto avvelenamento del blogger.
La chiave di quanto sta accadendo, infatti, con ogni probabilità sta tutta in questa cartina: si vuole soppiantare il progetto russo di fornitura energetica all’Europa con un altro più “gradito”. Ovvero, stroncare Nord Stream 2 a favore della Trans-Caspian Gas Pipeline, in grado di fornire gas naturale da Turkmenistan e Kazakistan attraverso proprio lo snodo cruciale dell’hub di Baku in Azerbaijan. Da lì, poi, verso la Turchia e l’Europa attraverso la rete di pipeline già esistenti.
Nemmeno a dirlo, il caso Navalny è totalmente strumentale a questa finalità, visto che in men che non si dica l’opzione ritorsiva del blocco del progetto energetico è balzata agli onori delle cronache, quando ancora il blogger era ricoverato in Germania. La quale, si sa, è attore principale di Nord Stream 2, presidente di turno dell’Ue e costretta a un sempre più inconciliabile tip-tap fra due scarpe, stretta com’è fra fedeltà atlantica e necessità di diversificare. Il tutto con al centro della disputa un soggetto la cui credibilità e affidabilità è pari a zero, ovvero la Turchia di Recep Erdogan. La quale sta finanziando e combattendo via proxy una guerra dichiaratamente anti-russa nel Caucaso, ma, in contemporanea, suscita le ire funeste di Pentagono e Dipartimento di Stato dando il via ai test sui sistemi missilistici S-400 acquistati proprio dalla Russia. Insomma, Ankara come al solito gioca su due tavoli e sfrutta la sua ontologica duplicità come arma di ricatto.
Questa volta, però, si rischia davvero l’incendio fuori controllo. Perché appare chiaro che quanto sta accadendo nel Caucaso sia assolutamente in linea con l’agenda di lungo termine della Turchia di portare proprio l’Azerbaijan nella Nato come scelta energetica strategica. Gradita, nemmeno a dirlo, agli Usa. Di più, gli attuali sviluppi appaiono infatti la prosecuzione e la naturale escalation – stante anche il clima di guerra sotterranea in seno al Deep State statunitense garantito dalle prossime elezioni presidenziali – dei tanti conflitti proxy innescati nel Caucaso negli anni scorsi, a partire dagli ex territori sovietici di Ossezia del Sud, Abkhazia e Transnistria.
Di fatto, al fine di poter garantire l’affiliazione di Georgia e Moldavia alla Nato, era infatti necessario che i due Stati recuperassero controllo e sovranità sui territori “ribelli”, agenda in cui si inquadra il breve conflitto fra Georgia e Ossetia nel 2008, placato sul nascere proprio dall’intervento militare russo ma fatto esplodere ad hoc per riuscire nell’intento di cooptare Tbilisi sotto la coperta dell’espansionismo ad Est. Ma quell’agenda, di fatto, non rappresenta soltanto una materia legata all’ambito della sicurezza internazionale, certamente non messa a repentaglio dalla Federazione Russa, bensì una scelta strategica a livello geopolitico ed energetico. Di fatto, la chiave di controllo dei futuri equilibri, in un mondo dove il barile di petrolio non riesce a schiodarsi dai 40 dollari al barile e il peso dei Paesi produttori rischia di venire ridimensionato dai deficit delle entrate, senza bisogno di muovere guerre più o meno dichiarate. Non a caso, la Russia è tornata a imporre l’argomento della nascita di un’Opec del gas proprio nei giorni scorsi.
Alla luce di tutto questo, quindi, l’arrivo di 4.000 jihadisti sul fronte della battaglia del Caucaso dimostra due cose. Primo, la tregua è assolutamente inconsistente. Secondo, c’è il forte rischio che qualcuno voglia premere per uno scenario siriano, ovvero un’escalation del conflitto che passi dal warfare tradizionale fra eserciti schierati all’utilizzo di guerrilla warfare e terrorismo su larga scala. Mosca può accettare un rischio simile? No. E se per caso Vladimir Putin fosse obbligato a intervenire, rischierebbe di cadere nel trappolone teso dalle forze Nato: un bagno di sangue stile Armata Rossa in Afghanistan, debitamente drammatizzato e amplificato dai media occidentali, che metta davvero a rischio l’implementazione di ogni tipo di cooperazione operativa fra Uw e Russia, Nord Stream in testa.
Come vi ho anticipato, qualcuno sta giocando con il fuoco. Ma come mostra questo grafico almeno per la Turchia l’azzardo appare ormai obbligato: le riserve di Ankara – esclusi gli swaps – stanno ormai puntando verso la soglia di allarme rosso e anche quelle auree, dopo anni di acquisti, stanno calando. E questo deve far riflettere, perché quella tendenza al ribasso sarebbe legata alla contabilizzazione ex ante di bond e sukuk messi sul mercato con oro fisico a garanzia, al fine di garantirsi un minimo di fiducia residua da parte degli investitori interni. Insomma, l’anteprima della canna del gas.
In una condizione simile, Recep Erdogan pare pronto a tutto. Come in effetti sta facendo, alla luce delle mosse antitetiche nei confronti di Mosca poste in essere solo negli ultimi giorni. Il problema, a questo punto, sta tutto nel grado di pazienza che Vladimir Putin potrà mettere in campo, se per caso la situazione nel Caucaso evolvesse rapidamente verso uno scenario da jihad che vada potenzialmente a risvegliare anche sopiti (a forza) ardori confessionali, ad esempio in Cecenia.
L’Europa, come sempre, probabilmente non sa nemmeno di cosa si stia parlando e quale sia la reale posta in gioco. Quindi, pavloviamente e ontologicamente, batte i tacchi davanti al padrone, scattando sul saluto. Attenti a scherzare con il Caucaso, però. Quello è il giardino di casa per Mosca. E la questione della Crimea ha già offerto un’anteprima su come la Russia sia pronta a mettere da parte la diplomazia, quando toccata nel vivo.