Se c’è una cosa che non fa difetto alla Cina è la capacità e la propensione alla programmazione. Fin dalla rivoluzione maoista, si pianifica in maniera maniacale. Sovietica. Su tempi lunghi. Proprio per questo, i più attenti fra gli osservatori di cose economiche nell’agosto del 2019 fecero notare come Pechino stesse facendo razzia di generi alimentari, creando scorte di magnitudo tale da far intendere o presagire l’arrivo di una crisi sistemica in grado di mettere a repentaglio gli approvvigionamenti. Globali. Oggi, due anni e mezzo dopo, i dati parlano chiaro.
Interpellato dall’agenzia Nikkei, Qin Yuyun, responsabile per le riserve di cereali presso la National Food and Strategic Reserves Administration cinese, ha confermato come «l’attuale riserva nazionale di grano è tale da garantire approvvigionamento e autonomia per un anno e mezzo. Il livello è tale da averci messo totalmente al riparo da qualsiasi dinamica legata alla catena di fornitura globale».
Il grafico qui sopra mette la questione in prospettiva: stando a dati tracciati da un attento e interessato osservatore delle mosse strategiche cinesi, ovvero lo U.S. Department of Agriculture, scopriamo che la Cina oggi possiede circa il 69% di tutte le riserve mondiali di mai, il 60% di quelle di riso e il 51% di grano. E quest’altro grafico mostra ancora di più.
Se infatti esiste una variabile che un Governo di stampo autoritario come quello di Pechino non può permettersi è un’ondata di malcontento popolare. Detto fatto, nei primi otto mesi dell’anno che si conclude oggi, la Cina ha speso in importazioni di generi alimentari qualcosa come 98,1 miliardi di dollari, 4,6 volte la media della decade precedente e più dell’intero 2016 solo nei primi otto mesi. Qui non ci troviamo di fronte a una politica di programmazione standard, routinaria. Qui siamo di fronte alla preparazione per qualcosa di epocale. E lo mostra questo terzo grafico, dal quale si evince che o Pechino è stata colta dall’abbaglio noto come sindrome Brown (ovvero, il vizio di calcolare male i timing delle operazioni strategiche che vide l’ex ministro delle Finanze e poi premier britannico, Gordon Brown, vendere le riserve di oro al minimo storico delle quotazioni) oppure l’aver continuato ad accumulare, facendo incetta su mercati come Usa e Brasile, in piena dinamica di rialzo record dei prezzi, significa che il calcolo costo/benefici ancora propende a favore della scelta di stoccaggio.
Pessimo segnale. Perché oltre ai cereali (o granaglie), Pechino ha messo mano al portafoglio e acquistato con il badile anche carne di manzo e maiale, frutta e prodotti caseari, i cui volumi di importazioni sono lievitati in un range che va dal raddoppio rispetto alla decade precedente fino alle cinque volte. Dopo essere stata la fabbrica a cielo aperto del mondo, la Cina appare il deposito alimentare del globo. Un enorme supermercato. A uso interno, apparentemente. O, magari, pronto a intervenire sulla catena di fornitura globale di cibo, se questa dovesse incepparsi. Divenendo in questo modo, player di assoluto primo piano. Di più, il dominus della situazione. Perché se gli incidenti finanziari si possono tamponare con l’intervento delle Banche centrali, la fame non si placa stampando cibo. E la fame porta alla rivolta.
E se quanto posto in essere da Pechino negli ultimi due anni e mezzo, in perfetta anticipazione dello tsunami pandemico che ha fatto deragliare tutti i treni del commercio globalizzato, lasciando solo enormi file lungo i binari, non dovesse bastare come elemento di preoccupata riflessione, ci pensa quest’altro grafico.
Attenzione, perché l’attuale crisi energetica non rischia di riverberarsi solo sull’industria manifatturiera e pesante o sulle bollette dei cittadini, bensì anche sulla catena di approvvigionamento e fornitura del cibo. Il prezzo dell’urea, fertilizzante base in agricoltura e sostanzialmente nitrato di ammonio allo stato solido, è alle stelle. Livelli record. Ma guardate dove sono, comparati, i prezzi agricoli tracciati dall’indice della FAO, già loro stessi ai massimi da un decennio: se, come paiono implicitamente temere i cinesi, la dinamica sarà quella di un forzato re-couple al rialzo, il 2022 sarà probabilmente l’anno della grande crisi alimentare. Oltretutto in pieno scenario di mutamento climatico, in grado di alternare alluvioni a periodi prolungati di devastante siccità: potenzialmente, una variabile che può ridurre l’offerta in maniera drastica, facendo strame dei raccolti. Di fatto, l’elemento base dell’urea agricola è totalmente dipendente dal prezzo del gas. Il quale ora sta calando un po’ in Europa grazie ai circa venti tankers in arrivo dagli Usa, ma per quanto durerà il sollievo? Soprattutto, se la Russia deciderà di chiudere il discorso legato a Nord Stream 2, messo in stand-by fino a luglio dal nuovo Governo tedesco e concentrarsi su Power of Siberia 2, secondo ramo della pipeline che porterà ogni anno 50 miliardi di metri cubi di gas della Gazprom dalla Siberia proprio alla Cina centrale via Mongolia.
E quest’ultimo grafico mostra come sottovalutare il trend appena descritto potrebbe tramutarsi in un errore di valutazione esiziale. Presentando i conti del secondo trimestre dell’anno fiscale 2021, Dolph Baker, presidente e Ceo di Cal-Maine Foods, il maggior produttore di uova fresche degli Usa, è stato chiaro: «Siamo rimasti a galla, nonostante l’impatto dei maggiori costi per gli ingredienti dei mangimi, la lavorazione, l’imballaggio, il trasporto e la manodopera». Ma la realtà davanti al mercato è chiara: i costi di produzione agricola per dozzina di uova sono aumentati del 21,6% su base annua, un incremento principalmente legato ai maggiori costi di alimentazione, già cresciuti a loro volta del 29%.
«Prevediamo che i prezzi di mercato dei nostri ingredienti per mangimi primari rimarranno volatili quest’anno fiscale, date le continue interruzioni legate alla pandemia, le fluttuazioni meteorologiche, i problemi geopolitici e di trasporto», ha aggiunto il Ceo. Da un’emergenza all’altra, insomma. L’anno che sta per aprirsi potrebbe portarci in dote la più pericolosa di tutte. Perché se già oggi le nostre coste continuano a registrare arrivi di imbarcazioni dal Nord Africa, un’eventuale crisi alimentare sul larga scala opererebbe da detonatore. Ovunque. Confini terrestri della economicamente tremebonda Turchia in testa. E quella gente, stante l’inferno da cui potrebbe trovarsi a scappare, non si ferma come il sottoscritto di fronte ai divieti del Governo (quattro decreti emergenziali in un mese, complimenti ai Migliori) e all’imposizione del super-green pass. Sfonda la porta. Perché non ha proprio più nulla da perdere.
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