Vi siete mai chiesti come sarà, con quale magnitudo potenziale potrebbe sostanziarsi la prossima correzione dei corsi azionari? Lo scorso marzo, quando il mercato precipitò dai suoi massimi sui timori innescati dal carattere pandemico assunto del Covid, si ebbe la chiara percezione che fosse alle porte una replica del 2008. Io stesso pensai che il livello di valutazioni ed espansione dei multipli cui si era giunti fosse troppo sistemico nel carattere di bolla per consentire alla Fed un intervento “ordinario” pur nella sua straordinarietà. La storia recente, anzi recentissima, ha smentito tutti. Il sottoscritto in testa: quello innescatosi meno di cinque mesi fa si è mostrato come il bear market più breve di sempre e il mercato sembra scoppiare di salute, visto che polverizza un record alla settimana. Quando non due o tre.
C’è da dire che, in effetti, all’epoca giocò la sua parte anche l’effetto preparatorio che la Federal Reserve aveva inconsciamente messo in campo a partire dal 17 settembre 2019, quando riattivò la sua operatività diretta sul mercato repo, inviando in questo modo un chiaro segnale a tutti: se serve, le rotative possono essere riattivate a tempo zero. E così fu.
Ora, però, qualcosa appare davvero cambiato. Venerdì scorso, lo Standard&Poor’s 500 ha eguagliato e migliorato un altro primato, il secondo in sei sedute di contrattazione. In sé, nulla che ormai valga nemmeno nemmeno un titolo di apertura di giornale. Business as usual. Ma in quale contesto è avvenuta questa ennesima prova di forza di Wall Street, al netto di un Covid che ritorna a fare paura pressoché a ogni latitudine, dagli Usa all’Europa all’India? Un quinto delle aziende quotate su quell’indice, venerdì scorso vedeva il prezzo dei loro titoli oltre il 50% al di sotto dei massimi di sempre, nonostante fosse in atto un rally generale.
Di più, stando a rilevazioni della Cornerstone Macro, l’azione media presente nello Standard&Poor’s 500 venerdì scorso viaggiava a -28,4% dal suo picco. Cosa significa questa tendenza, cosa ci dice? Parliamo, anzitutto, della cosiddetta market breadth. Ovvero, l’ampiezza di mercato. E di cosa si tratta, in parole molto povere? È un indice di misurazione utilizzato come proxy per determinare quale sarà la direzione dei corsi, se rialzisti o destinati a una correzione al ribasso dei prezzi, basato appunto sulla relazione fra titoli che salgono e titoli che scendono all’interno del medesimo indice. E quale conclusione possiamo trarre, ad esempio, dalla dinamica in atto venerdì scorso, quella appena descritta?
Che la market breadth è letteralmente collassata. Trend che di solito anticipa netti crash ribassisti. E attenzione, ho detto crash, non correzioni. Questi due grafici
parlano più di mille parole: il primo ci mostra come ormai lo Standard&Poor’s 500 andrebbe letteralmente ribattezzato in Standard&Poor’s 10. O, meglio ancora, Standard&Poor’s 5. Se infatti le prime dieci aziende quotate per capitalizzazione pesano per quasi un terzo del totale del valore dell’indice, il 29%, le prime cinque addirittura hanno raggiunto la percentuale record del 23%.
Il secondo grafico mette in evidenza la realtà di mercato, la stessa di cui nessuno Tg vi parlerà mai: se non fosse per le 5 cosiddette mega-caps, fra cui spicca la regina assoluta che è Apple, lo Standard&Poor’s 500 sarebbe di fatto piatto dai minimi dello scorso marzo. Basando invece il calcolo su una ponderazione legata al market cap, ecco spiegata plasticamente la natura del rally in atto. E c’è paradossalmente anche di peggio, come mostra questo altro grafico
il quale esemplifica quella che è forse la dinamica in prospettiva più terrorizzante di tutte, se prendiamo in esame il cosiddetto worst case scenario potenziale: in base alla valutazione dei titoli preferiti dagli hedge fund, il cosiddetto Vip basket, riferita all’espansione dei multipli di utile attesi soltanto a 2 anni, ecco a quale price action di accostiamo. Semplicemente, la tabella quasi non è più sufficiente a contenere il trend rialzista. Insomma, nei modelli di trading dei soggetti più speculativi di mercato, si opera con la convinzione di un mercato che andrà addirittura oltre ai risultati attuali e che vedrà i pochi market leaders in atto per valutazione di mercato continuare a macinare record. Uno dopo l’altro, il tutto al netto delle variabili macro. Tutto questo, infatti, sta avvenendo nonostante i dati relativi alla ripresa economica globale post-lockdown siano ovunque in stallo e il riacutizzarsi della pandemia metta gravemente a rischio le prospettive per il terzo e quarto trimestre 2020.
Ma chi se ne importa degli indicatori macro, quando puoi basarti su bastioni più saldi e remunerativi come multipli e buybacks, non pensate anche voi? Ma, soprattutto, sul sostegno diretto e incessante della Fed, vero motore immobile che ha reso possibile questa deviazione senza precedenti dalle regole minime di razionalità legata agli indici.
Volete un altro esempio, tanto per essere davvero pronti a tutto? Guardate questo grafico finale
il quale ci mostra il collasso totale delle posizioni ribassiste detenute sul mercato contro il titolo di Tesla, altra mega-cap insieme a Apple e soci. Sapete quanto hanno perso collettivamente da inizio anno gli investitori che hanno scommesso short contro l’azione dell’azienda di Elon Musk? Stando a dati della S3 Partners, oltre 25 miliardi di dollari. Già, a livello di mark-to-market, quegli shorts sono sotto di 25,4 miliardi di dollari di valutazione di mercato contro un rally del titolo che da inizio anno è quasi a quota +400%. Soltanto venerdì scorso, il giorno che abbiamo preso in esame a inizio articolo, i ribassisti hanno visto polverizzate scommesse per 619 milioni di dollari. Puff, spariti. Per l’intero mese di agosto (dall’1 al 21), quella cifra sale a 7 miliardi di dollari. Insomma, da oltre un anno Tesla sta garantendosi guadagni record in Borsa attraverso nulla più che short covering, ovvero rialzi garantiti da continui e pressoché quotidiani short squeezes di posizioni ribassiste da chiudere a ogni costo, prima che la chiamata sui margini inneschi default a catene di fondi e singoli investitori.
Di fatto, Tesla guadagna stando ferma e guardando suicidarsi chi osa scommetterle contro. Quanto peso ha, a vostro modo di vedere, l’operatività strutturalmente manipolatoria della Fed in una dinamica folle di questo genere? Tesla, infatti, non ha affatto presentato al mercato novità o conti tali da giustificare un trend rialzista simile. Anzi, il business in Cina rallenta ed Elon Musk è stato costretto ad abbassare i prezzi dei modelli-bandiera, al fine di non perdere quote di mercato causa crisi globale del settore legata al Covid. Ma attenzione, nonostante questa dinamica, il titolo Tesla rimane il più shortato al mondo, visto che in luglio quella di Elon Musk ha battuto il poco invidiabile record di divenire la prima azienda con oltre 20 miliardi di controvalore in short interest che le scommetteva contro. Si tratta di qualcosa come il 7,18% del flottante, visto che al netto dei 21,31 miliardi di short interest, occorre evidenziare i 10,65 miliardi di ammontare di scommesse ribassiste ancora attive. Tutti masochisti, tutta gente che si diverte a perdere miliardi settimanalmente? Oppure, come dimostrò David Einhorn con Lehman Brothers, li vero big short è quello che ha bisogno di costanza, tempo e di perdite in cui incorrere, prima di rivelarsi tale (e garantire guadagni sufficienti per tre vite)?
Attenzione, però: se cade Tesla – così come qualsiasi altra delle mega-caps prima citate, capaci di pesare per il 23% dell’intero Standard&Poor’s 500 – cosa accadrà al mercato in generale? Ecco la risposta alla domanda iniziale del pezzo: se volete uno spoiler del profilo che potrebbe avere la prossima correzione al ribasso di mercato, riguardatevi i grafici pubblicati in questo pezzo. E incrociate le dita. O, in alternativa, maledite la Fed.