Un’unica avvertenza: non chiamatela pantomima. E, soprattutto, non ritenetela tale. Perché non lo è. Anzi. Quella a cui abbiamo assistito è stata un’operazione politica di primo livello, costruita a tavolino e preparata da tempo. Un solo dubbio, tutta frutto delle tensioni interne al Governo o, magari, eterodiretta? Non so se lo avete letto, ma l’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale di Donald Trump, John Bolton, in un’intervista alla CNN – nel corso della quale gli veniva chiesto conto sulle presunte responsabilità dirette dell’ex inquilino della Casa Bianca nell’assalto a Capitol Hill – ha risposto in questo modo: Come persona che ha aiutato a fare colpi di Stato, non qui ma in altri posti, so che richiedono un sacco di lavoro e questo non è quello che ha fatto Trump.
Insomma, dopo il Deep State e le false flags, un altro vecchio mito complottista è caduto: anche per i media cosiddetti autorevoli ora si può dire che gli Usa lavorano dietro le quinte a operazioni di destabilizzazione in Paesi terzi. Lo sapevano da sempre anche i sassi (ne sanno qualcosa i cileni, ad esempio) ma adesso che ad ammetterlo è un uomo di Donald Trump, allora occorre sbandierarlo. Perché il messaggio veicolato sarà che l’ex Presidente si contornava di golpisti trafficoni e non che Washington mette il naso (oltre a logistica, armi e soldi) nei fattacci altrui per tutelare i propri interessi. Vedi Maidan e la rivoluzione colorata in Ucraina, ad esempio.
Ed è normale che sia così, poiché da solo questo ultimo concetto – de facto – pare offrire inconsapevole e implicito costrutto e credibilità alla versione del Cremlino rispetto all’ineluttabile necessità dell’operazione speciale contro Kiev, onde evitare dependance Nato direttamente nel giardino di casa e non più solo nei dintorni.
Mi piange il cuore a vedere che a Mosca sorridono, ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in riferimento alle dimissioni di Mario Draghi e alla vignetta di Dimitri Medvedev rispetto all’uno-due di amici di Kiev caduti in disgrazia nell’arco di pochi giorni. Prima Boris Johnson, poi Mario Draghi appunto. Nulla più che la versione 2.0 del giochino relativo al karma che aveva colpito tutti i protagonisti dell’Assad must go proclamato da Barack Obama ai tempi della guerra siriana. In effetti, Assad – protetto di Putin – è ancora oggi al suo posto. Obama e Cameron, invece, da tempo si occupano delle rose del giardino.
Fa sensazione quella frase del titolare della Farnesina, quel suo drammatizzare e internazionalizzare le conseguenze di quella che dovrebbe essere una crisi tutta interna al nostro sistema politico. E basata su dissidi legati a questioni meramente interne. Cosa c’entra, in effetti, la Nato con il mantenimento del Reddito di cittadinanza? O la Russia con la proroga del Superbonus al 110%? O il sostegno a Kiev con il termovalorizzatore di Roma? Su questi punti, infatti, sarebbe ufficialmente venuto a mancare il vincolo di fiducia fra presidente del Consiglio e M5S, certamente non sulla questione delle armi all’Ucraina, passata in cavalleria da tempo e destinata a restarci o sulla politica estera in generale. Utilizzate però entrambe come casus belli proprio da Luigi Di Maio per ammantare di fedeltà euro-atlantica la sua rottura con Giuseppe Conte e la scissione in seno a M5S. La stessa che, numeri alla mano, ha garantito comunque al Governo di ottenere la fiducia al Senato sul Decreto Aiuti. Di fatto, depotenziando i Cinque Stelle. A morte, soprattutto in vista del voto 2023 e dopo il massacro delle amministrative.
E qui si aprono riflessioni. Perché, al netto di questo, Mario Draghi ha comunque deciso di dimettersi, pur avendo una maggioranza numerica che lo sostiene? Perché quella corsa al Quirinale, addirittura mettendo in imbarazzo la Presidenza della Repubblica con la sua anticipazione in Consiglio dei ministri della data di mercoledì prossimo come giorno del ritorno alle Camere per le comunicazioni ufficiali? Ok essere casual, ma, fino a prova contraria, esiste una ritualità da rispettare nelle dimissioni di un capo del Governo. Un protocollo. E un rispetto istituzionale dovuto alle prerogative del Presidente. Qui invece è saltato tutto. Per la semplice ragione che, proprio imitando l’effetto Mattarella, le dimissioni irrevocabili di Mario Draghi diverranno revocabili. E M5S verrà, nell’arco di questi pochi giorni, polverizzato politicamente del tutto.
Non che la cosa mi dispiaccia, per carità. Ma c’è uno strano odore che filtra dalle stanze del potere. Sulfureo. Molto adatto ad accompagnare a livello olfattivo le parole di John Bolton alla CNN. Perché Luigi Di Maio ha sentito la necessità di sparare la sua intemerata contro il buonumore di Mosca proprio nelle stesse ore in cui l’Unione europea dava vita a un clamoroso dietrofront su Kaliningrad, visto che Bruxelles di fatto ordinava alla Lituana di togliere il blocco alle merci russe dirette verso l’enclave baltica. Non a caso, il ministero degli Esteri di Mosca ha definito l’accaduto una grande vittoria per la nostra diplomazia. Il tutto facendo infuriare Kiev. E avvenendo a strettissimo giro di posta dall’altra mossa che ha lasciato intravedere notevoli incrinature della granitica solidità del fronte anti-Mosca, ovvero la ridicola querelle sulla turbina in ostaggio del Governo canadese e che ora dovrebbe essere recapitata alla Germania. Non si sa per fare cosa, però. Perché fino al 21 luglio Nord Stream resterà chiuso per manutenzione e, già oggi, Gazprom ha reso noto che non può garantire la sua riapertura e il ritorno alla normale operatività. Sarà per questo che, furbescamente, Washington ha giocato a intorbidire le acque, crearsi un alibi e sviare i sospetti, dicendosi favorevole all’invio in Germania della turbina sanzionata?
Signori, quanto avvenuto a palazzo Madama è palesemente stato preparato a tavolino. E non tanto il ping pong poco istituzionale e rituale fra palazzo Chigi e Quirinale, bensì la scissione in seno a M5S guidata da Luigi Di Maio, il vero atto prodromico alla nascita di un Draghi-bis senza più ostacoli populisti in seno al Consiglio dei ministri. E con un bell’avviso di fine delle petulanze elettoralistiche verso l’ala più turbolenta della Lega.
Ci sono sempre i tempi supplementari, ha infatti dichiarato serafico un draghiano di ferro come il ministro Giancarlo Giorgetti, il quale forse già pregusta un effetto Conte sulla leadership di Matteo Salvini. Sfasciando il Movimento e rendendolo impotente a livello di numeri rispetto alla tenuta della maggioranza, Luigi Di Maio ha allestito il palcoscenico della recita a soggetto del potere andata in scena giovedì. La Bce con il suo ritardo nel reinvestimento titoli, poi, ha permesso allo spread una bella lievitazione mattutina in favore di telecamere dei talk-show. Scommettete che, da qui a lunedì, dall’Algeria dove si trova in missione ufficiale, Mario Draghi renderà nota la chiusura di un contratto di fornitura del gas in grado di riempire gli stoccaggi in tempo record, evitare piani di emergenza stile Germania – quantomeno in estate – e garantire al Paese un autunno/inverno produttivo per le imprese e al caldo per le famiglie? E come si fa, poi, a non rinnovare la fiducia a uno così, a Mister Whatever it takes che per l’occasione si fonde con Mister Wolf di Pulp Fiction, l’uomo che risolve problemi?
Nulla di strano, per carità. L’Italia ha visto e vissuto di peggio. E l’estinzione politica di M5S certamente non merita lacrime. Ma siamo sicuri che tutto quanto accaduto nelle ultime tre settimane sia nato, cresciuto e sviluppato in seno unicamente alla Repubblica Italiana e alle sue prerogative di sovranità politica e senza interventi, aiuti e suggerimenti esterni? Perché in caso contrario, il problema esisterebbe. E grande come una riduzione a colonia.
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