Breve riassunto fattuale. Mario Draghi abbandona il vertice Ue in anticipo: non appena terminata la discussione sull’Ucraina, sale sull’aereo e torna a Roma. Ha cose più importanti cui pensare che presenziare alla seconda fase dell’assise, quella fra Unione europea e Paesi africani. In ossequio al Patto del Quirinale, lascia il proprio discorso all’amico Emmanuel Macron: sarà lui a leggerlo in nome dell’Italia. Ma cosa aveva di così importante da fare il presidente del Consiglio a Roma?



La versione ufficiale parla della necessità di preparare un fondamentale viaggio a Mosca per garantire la propria mediazione, apparentemente richiesta da Vladimir Putin in persona e creare le condizioni per un dialogo diretto fra l’inquilino del Cremlino e il Presidente Zelensky, al fine di scongiurare il conflitto. Chapeau. E chissenefrega dei Paesi africani, concordo. D’altronde, il Governo dei Migliori ha fra le sue prerogative proprio quella di far tornare l’Italia protagonista assoluta in Europa. Anzi, di più: conquistarne la leadership dopo l’addio di Angela Merkel. E una mediazione di questo livello, di fatto, appare un battesimo del fuoco in grado di aprire la porta a una consacrazione de facto. Tutto peso diplomatico da far fruttare su tavoli differenti ma altrettanto esiziali, come quello sulla riforma del Patto di stabilità.



Poi, la sorpresa. Appena sceso dall’aereo, Mario Draghi non va a rinchiudersi a palazzo Chigi con i suoi consiglieri più fidati per organizzare la trasferta moscovita. Bensì, va al Quirinale. Direte voi, aggiorna il Presidente al riguardo, stante la delicatezza del compito di cui è stato investito e in ossequio al ruolo di capo delle Forze armate di Sergio Mattarella. No, apparentemente la salita al Colle sarebbe dovuta a una colossale arrabbiatura per le quattro volte in cui il Governo è andato sotto in Commissione nella discussione sul decreto Milleproroghe, notoriamente l’assalto alla diligenza degli appetiti partitici. Così non si va avanti, avrebbe tuonato Draghi di fronte a Mattarella, premurandosi di far arrivare forte e chiara la notizia a tutti i media del globo terracqueo. E ottenuto sostegno totale e solidarietà dal neo-rieletto Presidente, avrebbe strigliato direttamente i vertici dei partiti che reggono la sua maggioranza. Non a caso, il giorno dopo – venerdì – il Consiglio dei ministri fila via liscio a colpi di unanimità sul decreto che tampona il caro-bollette, tanto che in conferenza stampa Mario Draghi scherza con i giornalisti, parlando di ministri bravissimi e di un Governo bellissimo.



La mediazione a Mosca scompare dalla scena. Primum vivere. Anzi, sopravvivere politicamente. Ma c’è un problema. Mentre Mario Draghi cercava di tamponare il fall-out di scontento dei partiti e trovava 8 miliardi dal nulla, ovvero evitando l’ennesimo scostamento di bilancio su cui Bruxelles aveva già posto un veto tanto amichevole nei modi quanto risoluto nel tempismo, Emmanuel Macron si mostrava decisamente attivo. Quasi multi-tasking. Dopo essersi sorbito il vertice con i Paesi africani con ancora visibili le cicatrici dell’addio al Mali delle sue truppe, a cui oggi si preferiscono proprio i mercenari russi, l’inquilino dell’Eliseo comincia un vorticoso giro di telefonate. Chiama Putin, Zelensky, Boris Johnson, parla con Biden. E nella tarda serata di domenica arriva l’annuncio: la Francia ha ottenuto il formale via libera dai Presidenti statunitense e russo per un meeting diretto fra i due. Insomma, una Pratica di Mare 2.0. Anzi, decisamente più importante, perché la svolta diplomatica è giunta mentre in Donbass, di fatto, già si combatteva. A questo punto e al netto sia della conditio sine qua non posta da Joe Biden (ovvero, accetto l’incontro, ma solo se Mosca nel frattempo non avrà attaccato) che della doccia fredda arrivata ieri mattina dal Cremlino rispetto al carattere prematuro dell’incontro, che fine ha fatto la mediazione italiana e il viaggio a Mosca di Mario Draghi? È ancora utile? È ancora in agenda? Magari, sì. E c’è da sperarlo, perché vorrebbe dire che al Cremlino ancora esiste un canale preferenziale verso Roma rispetto a Parigi. Ma la sensazione è quella di uno scavalcamento francese non concordato, un pressing diplomatico dell’Eliseo che Roma potrebbe non aver gradito granché. Anzi, un doppio sgarbo. Perché la Francia è presidente di turno dell’Ue, quindi potrebbe aver mal digerito la fuga in avanti di Draghi, di fatto talmente in solitaria e non concordata da essere divenuta motivazione ufficiale dell’addio anticipato al vertice Ue.

Un bel guaio. Perché, stando a quanto deciso e firmato lo scorso 26 novembre al Quirinale, i nostri due Paesi dovrebbero muoversi in tandem per mettere all’angolo i tedeschi brutti e cattivi. Risultato a oggi? La Bce ormai pare aver deciso: fine degli acquisti al 30 settembre e primo rialzo dei tassi a dicembre. E attenzione, perché per dopodomani (24 febbraio) è stato fissato un meeting informale del Consiglio direttivo a Francoforte, in vista dell’ultimo board prima della fine del Pepp. Il tutto con Isabel Schnabel tramutatasi di colpo in falco, dopo aver operato per mesi da super-colomba al fianco di Christine Lagarde: alla fine, ha prevalso la logica di appartenenza. E Joachim Nagel non sta facendo rimpiangere Jens Weidmann, in quanto a determinazione. Anzi.

Quindi, riassumendo. A livello di sostegno Bce pare essere passata la linea rigorista. Tanto che, come avrete notato, anche su queste pagine comincia a campeggiare con sempre più insistenza il nodo del Mes e della sua ratifica ormai non più rinviabile: in tal senso, vi invito a rileggere certi articoli usciti dopo la sentenza della Corte di Karlsruhe dello scorso agosto. Fanno impressione. Quantomeno perché i medesimi estensori oggi scrivono l’esatto contrario. Ovviamente senza che nessuno chieda loro conto, ci mancherebbe. Sul fronte diplomatico, la Francia appare decisamente intenzionata a prendere la leadership europea in vista delle presidenziali di aprile: dopo le quali, si deciderà se davvero giocare in squadra con Roma o restare fedeli al patto renano con Berlino, una volta che Olaf Scholz avrà definitivamente direzionato a livello politico la sua cancelleria.

Ora, al netto delle polemiche, vi faccio una domanda: il Governo Draghi cosa ha ottenuto realmente più del Conte 2 in sede Ue, se non l’ennesimo rinvio nella risoluzione del caso Mps (ovvero, lo Stato continua a mantenerla) e delle concessioni balneari? E non basta. Il presidente del Consiglio, lo stesso che avrebbe dovuto (o che, forse, ancora dovrà) mediare ad altissimo livello per evitare la guerra in Ucraina, appare ostaggio dell’onnipotente ministro Speranza, poiché a fronte di un’Europa che riapre e si prepara a competere con il coltello fra i denti in vista della stagione turistica e di un primo trimestre che sarà economicamente rosso sangue per la crisi energetica e l’inflazione, qui si parla chiaramente di green pass, quarta dose e obbligo vaccinale per gli over-50 che resteranno comunque in vigore anche dopo il 31 marzo. Addirittura, si ipotizza fino a fine anno per scongiurare fin da ora rischi di quinta ondata nel prossimo autunno.

Non sarà che Draghi e Speranza stanno recitando la parte del poliziotto buono e quello cattivo, pensandola giocoforza allo stesso modo sulla necessità di tenere il Paese al guinzaglio ancora per un po’? Perché, se come appare pressoché certo, ad aprile esploderà il caso Mes, prepariamoci a ballare. E non i valzer viennesi dello spread di questi ultimi giorni. Una vera e propria taranta. Pensateci: di fatto, a oggi il massimo che il Governo sta offrendo concretamente a livello di fine delle restrizioni sarebbe la possibilità di mangiare i pop-corn al cinema durante il film e la capienza al 100% negli stadi, in ossequio al panem et circenses (anch’esso esiziale in periodi di instabilità politica seria). Scusate ,ma c’era davvero bisogno di scomodare Mr. Whatever it takes per far tenere in ostaggio il Paese dal ministro Speranza e dal Cts? Non sarà forse il caso di ridimensionare e di parecchio i risultati ottenuti dal Governo dei Migliori e cominciare a chiedersi se non esista un’agenda parallela e nascosta per l’Italia post-pandemia e post-Pepp? Sempre che porsi certe domande non configuri già reato di lesa maestà.

Ma d’altronde, siamo un Paese dove da due giorni la scena e il dibattito politico sono monopolizzati da Calenda e dal suo partito. Ho detto tutto. E c’è quasi da augurarsi il commissariamento.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI