Giudizio opinabile. Con irrituale e malcelata irritazione, il Mef ha risposto al downgrade dell’outlook operato da Moody’s sul rating creditizio italiano, passato da stabile a negativo. Eppure, il reato di lesa maestà nei confronti del Governo uscente non si è configurato, poiché fra le motivazioni della scelta figura proprio l’addio di Mario Draghi a palazzo Chigi e la conseguente instabilità innescata dalla campagna elettorale. Perché allora quella reazione? Perché Moody’s, per una volta, ci ha azzeccato. Non tanto e non solo sottolineando come il clima da caravan serraglio scatenato dal voto anticipato potrebbe certamente non giovare a un clima di responsabilità delle scelte politiche e conseguente rigore sui conti pubblici, bensì ponendo l’accento con durezza sulle conseguenze della criticità energetica in vista dell’autunno. Di fatto, una sconfessione della politica di rastrellamento di fonti alternative del Governo Draghi, nelle ultime settimane di vita tramutatosi in globetrotter del gas per rassicurare Paese e mercati rispetto all’approvvigionamento e alle scorte. Le quali sarebbero ormai a livello ottimale con largo anticipo sulla data del 1 novembre, almeno stando al ministro Cingolani. Finito nelle stesse ore al centro di un mezzo giallo – con annesso corteggiamento – per l’indiscrezione di una sua raccomandazione a Giorgia Meloni da parte dello stesso Mario Draghi in quanto ritenuto uno dei due titolari di dicastero meritevoli di conferma nel futuro esecutivo.



Insomma, alla delegittimazione di Moody’s pare che qualcuno voglia imporre – almeno a livello mediatico – la legittimazione del grande vecchio, una candidatura ex ante con un Governo di centrodestra che suonerebbe come imprimatur di successo. Quantomeno bizzarro, al netto della smentita giunta da palazzo Chigi al boatos pubblicato da La Repubblica. Non fosse altro perché Mario Draghi avrebbe deciso di fornire consigli all’unico partito che gli ha fatto strenua e dichiarata opposizione. Qualcosa non quadra. In compenso, Moody’s sa guardare i prezzi del gas. Così come sa leggere i bilanci. 



E quando i futures a una anno dell’energia elettrica in Germania toccano quota 410 euro per MWh, come accaduto la scorsa settimana, è difficile pensare che un’economia fortemente interconnessa con quella teutonica come la subfornitura e quella dei macchinari industriali del Nord Italia possa uscire indenne dalla recessione devastante che Berlino sa di dover affrontare. Con un’aggravante dell’ultim’ora, come mostrano questi grafici: con le aree di transito del commercio marittimo attorno a Taiwan messe in pericoloso stand-by dalle manovre militari cinesi, ecco che si scopre come la Germania sia uno dei Paesi al mondo più dipendente dalle esportazioni di Taipei. 



Tradotto, ulteriore aggravio potenziale sulle dinamiche dei prezzi, in caso si innescasse un processo di interruzione dell’offerta di beni. Ma a offrire una conferma tanto implicita quanto spietata dal timore di Moody’s, ci pensa questa immagine: si tratta della copertina dell’inserto del Guardian uscito il 5 agosto nelle edicole britanniche. Il senso del reportage da Mosca? La bocciatura su tutta la linea della politica sanzionatoria, poiché l’inviato del quotidiano inglese ammette senza remore come la vita nella capitale russa sia assolutamente normale. Come se non ci fosse affatto la guerra. 

Niente file ai bancomat o assalti agli sportelli per prelevare, niente scaffali dei supermarket vuoti o code per abiti e scarpe usate, niente razionamenti e mense dei poveri prese d’assalto. Non ditelo alla redazione de Il Foglio, per carità, ma voi prendete atto. Se volevate un altro 1998, forse avete sbagliato strategia. E a confermarlo è non solo il fatto che quel quotidiano viene pubblicato e fa riferimento a una delle nazioni più dure in assoluto verso Vladimir Putin, non fosse altro per i casi Litvinenko e Skripal, ma anche la consapevolezza storica che la sinistra britannica, di cui il Guardian è portabandiera, per mondare i peccati di collaborazionismo filo-sovietico del Labour, dopo il crollo del Muro si è notoriamente allineata alla politica aggressiva di Downing Street verso Mosca. E in tempi più recenti, schierata dichiaratamente al fianco di Aleksej Navalny e della sua campagna anti-Cremlino. Come dire, prima di ammettere una simile contingenza, occorre davvero che questa sia a prova di manipolazione. E talmente palese da obbligare alla resa di fronte all’evidenza. 

Ma non basta. Perché se questo ultimo grafico mostra il sobrio aumento del costo dell’elettricità a Londra, essendo il Regno Unito uscito dall’Europa ma pateticamente dipendente dal Belgio a livello di operatività della rete, questo tweet appare la plastica dimostrazione di come la tematica energetica stia diventando materia da allarme rosso per i sudditi di Sua Maestà. 

La campagna di rifiuto di pagamento delle bollette come atto di protesta contro il caro-energia e l’inazione del Governo sta divenendo virale e vede le adesioni decuplicare con il passare delle ore. Insomma, esattamente come Moody’s, nel Regno Unito paiono essere sempre più consci di quale sarà il prezzo – economico e sociale – che le sanzioni energetiche imporranno al Paese fra poche settimane. Differente, invece, l’approccio a casa nostra. Il tema, di fatto, nemmeno viene preso in considerazione. Anzi, il centrodestra sempre più in predicato di conquistare palazzo Chigi si lancia in sperticate e un po’ sospette apologie del ministro Cingolani, forse dimenticando certe sbandate ESG per garantirsi una bella figura alla COP26 di Glasgow e, sicuramente, soprassedendo sul fatto che, dati alla mano, l’unica fonte alternativa al gas russo (quella algerina) richiederà almeno due anni per divenire totalmente operative. E per meno della metà delle necessità fino a oggi coperte da Gazprom. 

Quella di Moody’s non è un’incursione nella politica italiana, né tantomeno il classico tackle scivolato fuori tempo per fare male al giocatore avversario attualmente più in forma: per una volta, ancorché magari motivata da sollecitazioni sottostanti e inconfessabili, si tratta della presa d’atto di una criticità del nostro Pil che non saremo in grado di affrontare con armi e ricette ordinarie. Fra poche settimane, la questione diverrà quella del gestire la transizione energetica non più con l’agio della prospettiva, bensì con l’urgenza della contingenza. E la pista russa appare preclusa. Sia per le dichiarazioni del centrodestra, sia per la quasi certa volontà di Mosca di far sudare sette camicie il vecchio alleato che ha voltato le spalle con tanto astio e facilità. 

Chiunque vinca, quell’outlook rappresenta il lascito più qualificante della mitologica agenda Draghi. Piaccia o meno. E il Guardian ci conferma che prendere di petto Mosca impone un fisico bestiale. Che non abbiamo. Nemmeno come Ue. Figuriamoci come Italia. 

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