Non fossero bastati i focolai di destabilizzazione già in atto a livello globale, il fine settimana appena trascorso ci ha portato in dote anche il Libano e il Cile, quest’ultimo con i suoi echi sinistri di coprifuoco, rivolte e mezzi blindati dell’esercito per le strade. Il mondo è un’enorme pentola a pressione, apparentemente pronta a esplodere. O, forse, soltanto mandata volontariamente in ebollizione, tanto perché tutti sentano il suo fischio allarmante e capiscano che non è il caso di esagerare. Con cosa? Con troppe richieste, da un lato. Ma, soprattutto, con la prudenza dall’altro.
Ed è proprio questo secondo frangente a doverci far riflettere. Perché se esiste una strategia consolidata nella gestione del potere, questa è quella che vede come arma fondamentale il saper tirare la corda fino a un secondo prima che questa si spezzi. Poi, si molla. E temo che ormai i fili di quella corda siano visibili a tutti nel loro grado di sfilacciamento, uno dopo l’altro. Ogni giorno che passa, c’è meno fibra di resistenza del sistema. Ogni giorno, il tirante diviene meno solido.
Ora, per capire ciò che voglio dire, sono fondamentali questi due grafici. Il primo ci mostra il risultato delle prime due operazioni della Fed in seno al nuovo Qe, ovvero il ritorno a un programma di acquisti diretti di Treasuries al fine di fornire liquidità al sistema, partito la scorsa settimana e atteso in operatività fino almeno al secondo trimestre del 2020. A fronte di disponibilità di 7,5 miliardi cadauna (escludendo poi i titoli a brevissima scadenza, fuori dalla platea iniziale di assets eligibili), la prima “asta” ha visto domanda per 32,6 miliardi di dollari, mentre la seconda addirittura per 36 miliardi. Rispettivamente, una ratio di sovra-iscrizione di 4.3x e 4.8x.
E cosa c’è di grave? Ce lo mostra il secondo grafico, dal quale desumiamo che in un solo mese, lo stato patrimoniale della Fed è cresciuto di 200 miliardi di dollari di controvalore, il grado di aumento più rapido dalla crisi finanziaria. Sintomo che qualcosa sta andando fuori controllo. Quei 200 miliardi, oltretutto, non contemplano le operazioni appena descritte, ovvero il Qe vero e proprio, ma soltanto le aste repo e term che la Fed ha riattiviato emergenzialmente lo scorso 17 settembre, a seguito dell’impazzimento dei tassi sul mercato interbancario. Ora, cosa deve dirci questa richiesta così di massa di liquidità da parte delle banche? Primo, esiste un grado di disperazione che ormai è strutturale, sia perché formalmente la Fed ci ha tenuto a rendere chiaro che il suo ritorno all’operatività diretta sul mercato è finalizzato unicamente alla ricostituzione delle proprie riserve, sia perché – al netto delle scuse formali – il mercato ha comunque ottenuto una rassicurazione di intervento che andrà almeno fino ad aprile-maggio 2020. Oltretutto, con l’assistenza ulteriore delle aste repo e term quotidiane, prolungate a loro volta fino a gennaio. Insomma, liquidità a iosa. Forse le banche sanno che la situazione è ben peggiore di come appaia e venga dipinta implicitamente dalle mosse della Fed e stia già prezzando i rischi, attraverso questa partecipazione iniziale di massa, quasi a voler accantonare tutto il possibile e subito?
Secondo, le istituzioni finanziarie – Usa e straniere attraverso le filiali statunitensi – non si fidano più del mercato interbancario come luogo di risoluzione quotidiana delle proprie necessità di finanziamento, di fatto lo rifuggono. Questo, nonostante quel mercato e i suoi tassi overnight si basino sull’obbligo di fornitura di collaterale per le operazioni, quindi di una garanzia formale. La quale, poi, dura un giorno nella stragrande maggioranza dei casi: dobbiamo forse pensare che la stragrande maggioranza delle banche negli Usa non si fidi della promessa di una sua controparte di rifonderle a 24 ore quanto ha ottenuto? Pare di sì, almeno vedendo l’affluenza sempre sostenuta alle aste del mattino, quelle in cui è appunto la Fed di New York a farsi garante e fornitore di liquidità, di fatto anestetizzando il rischio di controparte. Capite da soli che questi sono segnali chiari, ancorché apparentemente solo tecnici. Il prossimo passo? Se per caso, la Federal Reserve fosse obbligata ad ampliare la platea dei suoi acquisti, avremmo la riprova del fatto che la situazione era ormai al limite del sopportabile. Perché ci direbbe che occorre un vero e proprio bazooka per contemperare le due esigenze, divenute stringenti. Primo, rimpolpare le riserve. Secondo, farlo garantendo contemporaneamente liquidità diretta e immediata al mercato.
Un bel problema, un esercizio di equilibrio precario ben più serio di quanto non sembri. E veniamo ora al contrappunto politico di questa situazione. Al mondo, infatti, esiste una certezza, quasi matematica: quando il Fmi si rende conto della gravità di una situazione, significa che questa è ormai fuori controllo. Come contraltare, però, c’è il fatto che – in base a una non meglio precisata autorevolezza percepita -, ogni qualvolta da Washington parte un allarme, il mondo pare prenderne immediatamente contezza, svegliandosi dal torpore.
Bene, lo scorso fine settimana a New York si sono tenuti i meeting annuali proprio di Fmi e Banca Mondiale, simposi ufficiali cui era presente il gotha transazionale. Fra gli altri, il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Il quale ha tenuto uno strano discorso, apparentemente molto teorico, ma in realtà traducibile come un disperato, quasi terminale grido d’aiuto. In sintesi: le Banche centrali stanno finendo rapidamente le munizioni a loro disposizione, ora tocca ai governi salvare il mondo. Come? Attraverso politiche di stimolo e fiscale e investimenti green.
Cosa vi avevo detto, in tempi non sospetti, che il famoso Green New Deal di Alexandria Ocasio-Cortez, rapidamente divenuto un franchising del politicamente corretto a livello globale (Italia giallorossa in testa), altro non era se non un Qe sotto mentite spoglie e perseguito con altri mezzi? Et voilà, ecco la conferma. Giunta dai massimi vertici delle consorterie internazionali. A detta di Guterres, infatti, “il mondo rischia di andare incontro a quella che è una Grande Frattura, ovvero la sua spaccatura in due e la polarizzazione fra Cina e Usa come aree di influenza, soprattutto attraverso il conflitto commerciale in atto… Non è tardi per evitare questa prospettiva, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per scongiurare questo epilogo e mantenere un’economia dai tratti internazionali basata su leggi condivise, un mondo multipolare con forti istituzioni multilaterali, proprio come Fmi e Banca Mondiale”. La ricetta? In tre punti. Primo, modernizzare i sistemi di tassazione al fine di renderli più efficienti, verdi e più allineati alle esigenze dello sviluppo sostenibile e delle agende politiche di azione contro i cambiamenti climatici. Secondo, i mercati finanziari globali devono incentivare gli investimenti di medio termine in programmi di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza, al deterioramento del clima e dell’ecosistema e al fine di perseguire obiettivi prosperità, pace e giustizia. Terzo, è giunta l’ora di porre un termine alla politica di accumulazione del debito che porta a cicliche e dolorose crisi”.
Ora, se Guterres si fosse limitato a enunciare il terzo punto, lo vorrei Presidente del mondo. Il problema è che non puoi essere ritenuto credibile, quando i primi due capisaldi della tua azione sono in netto, palese e parossistico contrasto con l’ultimo. Non si può chiedere politiche di espansionismo fiscale e investimenti di lungo termine contro la povertà e a favore della giustizia e della pace (sembra il programma di un liceale in piazza per i Fridaysforfuture, non il piano concreto del numero 2 dell’Onu), salvo poi ammettere che siamo in pieno delirio da Boom and bust – come denunciato dalla Scuola Austriaca di Economia, quella che a detta dei geniali neo-keynesiani al potere nemmeno esisterebbe – e che avanti così arriveremo alla distruzione totale del sistema per conclamata tossicodipendenza da tassi a zero e denaro stampato in cantina. È semplicemente ridicolo: ammettiamo ciò che è palese, la scusa ambientalista altro non è che un alibi per continuare con manovre e programmi sempre più espansivi, evitando però di usare termini ormai poco rispettabili e spendibili – visti i risultati ottenuti, ovvero dati macro sempre peggiori ma Borse ai massimi record – come Qe, allentamento quantitativo e quant’altro.
Capito perché, dalla sera alla mattina, un’anonima ragazzina 16enne che il venerdì restava fuori dalla sua scuola con un cartello per protestare contro i cambiamenti climatici, è arrivata quasi al Nobel per la Pace e ha rampognato, proprio all’Onu, i potenti del mondo in diretta globale, divenendo capo-popolo di una rivolta mediatica? Capito, adesso o vi serve qualche altra prova della strategia che è in atto?
Sveglia, prima che la “generazione Greta” arrivi al potere. E sia davvero troppo tardi, perché il suo obiettivo – ancorché declinato in 50 sfumature di verde – è quell’aberrazione dello statalismo totalitario chiamata helicopter money.