Pesca VS spread. La titanica battaglia è iniziata. L’opinione pubblica ha due ossi belli grossi e succosi da spolpare, dopo che di quello dei migranti è rimasta solo la cartilagine dei vertici Ue. Come tanti cani di Pavlov, giornali e siti hanno cominciato a salivare alla vista del differenziale con il Bund salire alla fatidica quota 200. Un qualcosa che è perdurato per mesi, tra l’altro. Senza che nessuno si preoccupasse. O dedicasse titoli. Ma si sa, l’informazione in Italia serve a sedare. Non a svegliare. Quei 200 punti base andavano raccontati “in progress” nelle scorse settimane, perché è la dinamica che li ha sostanziati a essere interessante. E inquietante. Ma farlo significa disturbare il manovratore (Governo, mercato, banche, assicurazioni), quindi meglio aspettare l’effetto. La causa resti nell’ombra.



In tal senso, poco importa che all’asta di ieri il Tesoro abbia dovuto pagare il 4,41% – massimo dall’agosto 2012 – per collocare sul mercato 5 miliardi di Btp a 5 anni. E il 4,93% – massimo dall’ottobre 2012 e in aumento di 68 centesimi solo dall’asta mese scorso – per 3 miliardi della terza tranche del Btp a 10 anni. L’importante è lo spread a 200. Quella fa titolo. Le aste, invece, fanno paura. Quantomeno, in vista del collocamento di lunedì prossimo del Btp Valore; stavolta il Signor Rossi avrà paura o crederà ancora all’opportunità storica della cedola trimestrale e del premio fedeltà? E le banche riusciranno a operare da piazziste del Mef? E i giornali eseguiranno bene il loro compito di prospettivi informativi per via XX Settembre?



Questa è la situazione, signori. E siamo in ottima compagnia. Guardate il grafico: esattamente una settimana fa davo conto del superamento di quota 33 trilioni di dollari per il debito totale degli Usa. Bene, siamo già a 33,1 trilioni. Qualcosa come 100 miliardi in una settimana. Anzi, riferendosi al mercato, in soli 5 business days.

Denominando la cifra in sterline, l’America in una settimana ha appena creato debito pari a circa l’intero deficit annuale del Regno Unito. Il meraviglioso mondo del Qe, stampa e sterilizza bellezza! Ogni tanto, però, Miss Realtà entra a palazzo con il suo incedere austero. E allora occorre sfoderare le armi di distrazioni di massa. Arriva lo shutdown, arriva lo spread a 200. Ma nessuno che dica che la ragione – quella intrinseca, culturale prima che politica – sta tutta nella carta di credito che hai nel portafogli. Nell’auto a rate che non puoi permetterti. Nell’immobiliare lisergico. Nel credito al consumo ormai necessario a controbilanciare l’impoverimento salariale su cui si basa l’intero modello di indebitamento e profitto rapido.



Guardate ora questo altro grafico: per attrarre talenti, le corporations Usa non offrono più benefit. Offrono assistenza per estinguere il debito scolastico.

Sta tutto qui, il vero problema. E nel fatto che nessuno ve lo dica. A parte qualche eccezione. Perché dire la verità costa. Caro. Carissimo. Perché ai manovratori non piace che si faccia notare l’incoerenza del loro agire rispetto alle promesse. Come volevasi dimostrare, ad esempio, il deficit che doveva stare sotto al 4% è invece salito al 4,3% per generare un tesoretto da 14 miliardi da spendere nel Def. L’Europa capirà, ha dichiarato sconsolato il ministro Giorgetti. E in effetti, capirà. Perché una mossa simile da parte del Governo significa una cosa sola: la trattativa con Bruxelles va ben oltre lo scambio fra approvazione della ratifica del Mes e scostamento di bilancio, come anticipato. Altrimenti, nessuno si sarebbe permesso un cambio di impostazione simile sulla Nadef nell’arco di 24 ore. Cosa c’è sotto, quindi?

Impossibile saperlo, quantomeno per noi mortali. Patrimoniale? Magari sugli immobili attraverso un intervento riformatore del catasto? Pensioni? Una cosa è certa, tutto finirà catalogato alla voce spending review, come si è affrettato ad anticipare l’ineffabile numero uno di Confindustria. Magari non ci si azzarderà a utilizzare la formula del ce lo chiede l’Europa, non fosse altro perché in vista del voto del prossimo giugno questo rappresenterebbe un azzardo politico decisamente eccessivo. Ma al netto di un Def che verrà approvato e di un’Europa che fingerà approvazione benevola, in attesa di ottenere le garanzie pattuite, cosa preoccupa davvero il ministro Giorgetti? La decisione definitiva di Eurostat sui criteri di contabilizzazione del superbonus, attesa a metà 2024.

Apparentemente, un qualcosa di lontano. Almeno se rapportato alle rogne della Nadef. Ma terribilmente vicino proprio alla data delle elezioni Europee. E cosa potrebbe comportare? L’entità dei crediti incagliati ha infatti costretto l’Agenzia europea a riconsiderare quanto previsto lo scorso febbraio, quando i crediti legati al superbonus vennero classificati come “spesa pubblica” fra il 2020 e il 2022. Tradotto? Se quei crediti non si sbloccano si trasformano in deficit. Qualcosa come oltre 100 miliardi da spalmare fino al 2027. Ed ecco che l’arte italica dell’arrangiarsi sembra aver fatto di necessità, virtù. Per l’ennesima volta.

Tra le soluzioni al vaglio dell’Esecutivo figurerebbe infatti l’ipotesi di uno scambio – su base volontaria – in base al quale le banche cedono i crediti d’imposta, ricevendo in cambio dal Mef (rullo di tamburi)…. titoli di Stato di nuova emissione per lo stesso valore! Cosa manca all’appello di questo quadretto idilliaco per ottenere la proverbiale quadratura del cerchio? Le garanzie statali su un’operazione simile. E, oltretutto, la volontà delle banche di accettare questo ennesimo doom loop sui Btp come unica via d’uscita per limitare i danni, stante un sentiero che diviene ogni giorno più stretto. Nel frattempo, il decennale benchmark prezza un rendimento del 4,80%. E su Mps si addensano nuvoloni speculativi. Mentre Unipol accelera per l’acquisizione di Popolare Sondrio.

C’è tutto un mondo che si agita frenetico, quasi epilettico, attorno alla “pesca” di Esselunga che sta catalizzando l’attenzione del pueblo. Solitamente, da queste situazioni entropiche l’Italia non esce benissimo. In compenso, i cavalieri bianchi esteri non attendono altro. E i loro giannizzeri nostrani danno il meglio.

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