Oggi non servono grafici. E non serve nemmeno dilungarsi come al solito. Perché il Re è nudo. Con il voto all’Europarlamento sul nuovo Patto di stabilità l’intera classe politica italiana – esclusi i Cinque Stelle, forti di un’irrilevanza che garantisce libertà di azione – ha certificato due cose. Primo, la manovra correttiva di autunno ci sarà. E sarà da lacrime e sangue. Secondo, quanto fatto passare attraverso la codarda e pilatesca posizione astensionista non è un compromesso, come ha tentato di minimizzare ieri il ministro Giorgetti. Bensì, la certificazione di un percorso di riduzione del debito che, a partire dal 2026, di fatto vedrà l’Italia commissariata da Bruxelles. Niente troika, niente spread. È bastato un voto. Democraticissimo. Pubblico. Trasparente. E una posizione bipartisan al 90% della politica italiana che dice una cosa sola: sarà un massacro, quindi mettiamo le mani avanti. Perché non sappiamo a chi toccherà gestirlo. Magari al Pd. Il quale, quindi, ha preferito mettere in arsenale la classica pistola da caviglia di 007, quella che non si vede e spesso salva la vita nelle situazioni estreme.



Quando la scure dei tagli lineari, dell’aumento delle tasse, della patrimoniale o dell’assalto alla diligenza dei beni immobiliari o del risparmio privato italiano entrerà nel vivo, sarà pronta la rassegna stampa relativa a quel voto del 23 aprile 2024. Ovvero, noi ci eravamo astenuti, proprio perché vedevano già quelle criticità. Potete segnarvi questa frase, non temo smentite. Andrà proprio così. Già oggi, ecco che alla vigilia dello sbarco alle Camere del Def, salta il primo buffo senza copertura. Quello legato all’Irpef. Nel frattempo, arriva un nuovo Btp Valore. Vi invito ad andare sul sito del Mef e dare un’occhiata al calendario delle aste previste solo per la fine di questo mese: stiamo emettendo debito come se i tassi fossero a zero. Invece sono ai massimi storici. Cosa vi fa pensare un simile atteggiamento? Masochismo? O disperato bisogno di cassa, quasi a ogni costo?



Mentre all’Europarlamento si votava, il Mef emetteva un Btp a breve termine (scadenza 28 gennaio 2026) per 2,5 miliardi di controvalore. Per piazzarlo e arrivare a una ratio domanda/offerta di 1,44 abbiamo corrisposto un rendimento lordo del 3,42%. Cioè, 11 centesimi più dell’asta precedente. E il tutto in palese regime di sostegno della Bce. Non tanto per il reinvestimento titoli, bensì perché due pezzi da novanta del board come Centeno e De Guindos a inizio settimana hanno fatto flettere il nostro differenziale, parlando di taglio dei tassi per complessivi 100 punti base e oltre da parte della Banca centrale nell’anno in corso. Quattro interventi da un quarto di punto. A partire da giugno?



Balle. Pericolose. Attenzione, infatti, a quanto accaduto con la Fed. Solo lo scorso autunno si prezzavano 6 tagli nel 2024, ora i futures hanno spostato tutto a marzo 2025. Sono tante, troppe le criticità che si stanno sommando. E che fingiamo di non vedere. Soprattutto, il fatto che nessuno può più cercare strane scappatoie interpretative: astensione o meno, quanto passato al vaglio di Bruxelles certifica la necessità di deficit sotto il 3% del Pil. Siamo al 7,2%. Come si fa, persino volendo dilatare a dismisura i tempi concessi dall’Europa e prezzando già una Commissione a guida Mario Draghi che chiuderà un occhio?

La matematica non è un’opinione. O alzi le tasse o tagli la spesa. Lo Stato non è un cittadino che può sperare nel Superenalotto o nello zio d’America. Nel frattempo, il numero uno di Fondazione CRT abbandona la call con il consiglio, di fatto dimettendosi dalla guida della potentissima cabina di regia piemontese della finanza parastatale. Del capitalismo di relazione. Ma al di là dei dossier pesanti che circolano su quel tavolo, da Cassa depositi e prestiti a Generali fino al ruolo in Unicredit, il fatto che una vecchia volpe politica come Fabrizio Palenzona motivi il suo sbattere cornetta e porta con l’impossibilità di scendere a compromessi su etica e legalità, dovrebbe far drizzare le antenne. L’odore è il medesimo che emana quell’astensione sul Patto di stabilità: mettere le mani avanti, cautelarsi. E si sa, l’architrave finanziario dei conti pubblici italiani, quantomeno a livello di cassaforte dei Btp, è proprio il Leone di Trieste.

Siamo alla vigilia di un 1992 che propone rapporti incestuosi al 2011. Non a caso, tutti preferiscono occuparsi di un tema di strettissima attualità come il fascismo. Per anni e non certo solo per l’arco temporale del Governo Meloni, questo Paese ha vissuto sulle spalle dell’illusione da pasto gratis della Bce. Emergenza dopo emergenza. Prima il Covid, poi la crisi energetica da sanzioni. Poi, i tassi sono tornati a salire. Tanto. E relativamente molto in fretta. L’inflazione ci ha garantito un ammortizzatore dai costi di servizio del debito, ma quel medesimo debito, invece di scendere drasticamente o almeno tendenzialmente, è rimasto tale. Se non salito. In compenso, il Superbonus ha fatto letteralmente esplodere il deficit.

Il nuovo Patto di stabilità non è un compromesso. A scriverlo ci hanno pensato i soliti noti. Ovviamente, in un Paese dove dire la verità in politica equivale a bestemmiare, tutti avevano vinto. Noi per primi. Come per il gas tunisino. O l’accordo albanese sui migranti. Ora, invece, squilla la tromba della realtà. E il voto di Bruxelles ne è stata conferma.

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