Quattordici milioni di italiani stanno facendo il ponte del 2 giugno. Buone vacanze a loro, soprattutto buona fortuna quando dovranno fermarsi al distributore: la verde oltre i 2 euro al litro. E andrà sempre peggio. Perché signori, piaccia o meno, il petrolio in Italia non c’è. E nemmeno in Germania. C’è nel Mare del Nord. Ma costa molto più del greggio degli Urali russo, il quale viene acquistato con il badile da India e Cina, quest’ultima pronta a un accordo di medio periodo con Mosca per riempire a prezzo di saldo le sue riserve strategiche. Le stesse che Joe Biden ha svuotato, salvo ora annunciare un buyback per l’autunno. Ovviamente, facendo salire il prezzo. Un Nobel asintomatico.
L’Europa non vuole capire di essere un gigante commerciale e industriale ma un nano per le materie prime: e senza queste ultime è difficile produrre. In compenso, a poco a poco, spuntano come germogli i mea culpa: Janet Yellen, ex numero uno della Fed e ora responsabile del Tesoro Usa, ha ammesso che forse ha sbagliato approccio e analisi rispetto all’inflazione. Non male, essendo la quota obiettivo al 2% e l’attuale livello oltre l’8%. Raggiunta la doppia cifra, forse eliminerà la formula dubitativa di fronte all’ammissione delle sue responsabilità.
Guardate questo grafico, il quale ci mostra come la nostra percezione di mondo sia totalmente sballata e Nato-centrica: non siamo i più forti, non siamo nemmeno maggioranza. Il cosiddetto blocco euro-asiatico non è un’invenzione rosso-bruna. È già realtà.
Sapete che cosa sia l’EAEU? È l’acronimo di Eurasian Economic Union, patto di sviluppo e cooperazione che comprende Russia, Kazakhistan, Kirghizistan, Armenia e Bielorussia. Prima del golpe di Maidan del 2014, l’Ucraina aveva la possibilità di entrare a farne parte. In tempi rapidi. Rapidissimi. Disse no. Scelse altro. Legittimo. Ma, forse, qualche dubbio sull’intera operazione che era già in atto da quelle parti potrebbe innervarsi in questa decisione. Perché nonostante certi giornalisti con le bretelle abbiano deciso che l’argomento del momento è negare l’esistenza di una guerra per procura in Ucraina, questa scelta di Kiev parla chiaro. E fa tenerezza che un burattino nelle mani del Dipartimento di Stato come l’ex presidente Petro Poroshenko ora venga invitato a Davos, dove pontifica come uno statista e scomoda il fantasma di Hitler e del 1939. In confronto a Poroshenko, Antonio Razzi è Winston Churchill e Domenico Scilipoti un misto fra John Fitzgerald Kennedy e Helmut Kohl.
Poroshenko è l’uomo che fermò e trasferì il super-procuratore anti-corruzione su formale e ricattatoria richiesta dell’allora inviato Usa per l’Ucraina, guarda caso proprio Joe Biden, Il motivo? Stava mettendo il naso dentro Burisma, il colosso statale nel cui board figurava Hunter Biden, figlio dell’attuale Presidente Usa. Il quale, casualmente, dopo aver stretto la mano all’amico immaginario e aver portato a fare pipì il cane invisibile, cambia idea nell’arco di 24 ore su una questioncina da nulla come l’invio di missili di nuova generazione a Kiev. Armi in grado di colpire il territorio russo. Ma tranquilli, quell’altro premio Nobel per la Pace del Presidente Zelensky ha detto che non lo faranno. E come non credergli?
A vostro modo di vedere, come mai quel cambio di rotta così repentino e in grado di far evocare al Cremlino scenari di escalation inquietanti? Forse perché Zelensky e Poroshenko sono in grado di far saltare la presidenza Biden in mezza giornata, se fanno uscire la verità sul caso Burisma e sullo sblocco degli aiuti del Fmi a Kiev? Signori, questa non solo è una proxy war. Questa è LA proxy war per antonomasia. Un caso di studio, un base case scenario da lezione accademica di destabilizzazione e conflitto asimmetrico.
Direte voi: se Biden è ostaggio, chi muove i fili negli Stati Uniti? Chi gioca di sponda con Zelensky e i galantuomini del battaglione Azov? Il Pentagono. E, soprattutto, il comparto bellico-industriale che gli sta alle spalle. Il warfare, insomma. E questo grafico parla chiaro: mercoledì la Fed di Atlanta ha pubblicato l’aggiornamento del tracciatore in tempo reale del Pil (GDPNow) per il secondo trimestre. Dall’1,9% del 27 maggio è sceso all’1,3%: un tracollo dei dati macro, a partire dal Surprise Index di Citigroup. E, appunto, con un’inflazione ai massimi da quando al cinema si proiettava la versione originale di Top gun.
Attenzione, signori: a mantenere ancora in linea di galleggiamento la crescita economica Usa, nonostante il tonfo dell’ultima settimana, c’è proprio il comparto bellico, il quale sta macinando ordinativi record e affari d’oro. E con un rallentamento globale in atto e la Cina costretta a operare in primis su ribilanciamenti di dinamiche interne, a Washington serve che la guerra prosegua. Il più a lungo possibile. Servono cannoni per il Pil, serve warfare. Detto fatto, ecco come sia stato possibile che l’uomo formalmente più potente del mondo cambiasse idea nell’arco di 24 ore. E, oltretutto, accettasse la promessa di Kiev di un utilizzo consapevole e morigerato dei missili di cui sta per essere dotata. Con l’esercito russo che macina chilometri e conquiste ogni giorno, davvero pensate che quei missili verranno lesinati? Paradossalmente, se lo facessero, gli ucraini sarebbero degli idioti.
Ed eccoci al problema, serissimo. Al netto di un Cremlino che ha congelato immediatamente ogni accordo formale sul grano e un Viktor Orban che ha bloccato il sesto pacchetto di sanzioni Ue, chi finirebbe vittima immediata e sacrificale del fuoco incrociato di un eventuale incidente su territorio russo? Chi vedrebbe i flussi di gas interrotti, mentre già ai distributori la benzina farà l’occhiolino a 2,5 euro al litro? Come mai, mentre il Cremlino apriva per la prima volta all’ipotesi di incontro fra Putin e Zelensky, da Washington e Londra arrivavano le notizie di sblocco dei nuovi armamenti per Kiev, di fatto una volontà precisa di far saltare il banco negoziale prima ancora che i protagonisti si sedessero? Questa non è una guerra per procura, a vostro modo di vedere?
Attenzione, perché adesso l’asticella del rischio si sta alzando davvero. E se per caso fra giovedì prossimo e il mercoledì successivo, Bce prima e Fed poi innescassero l’uragano economico delineato dal numero uno di JP Morgan, Jamie Dimon, nella riunione con analisti e investitori, l’Europa sarebbe nell’occhio di quel ciclone. E l’Italia, nemmeno a dirlo, l’epicentro con il suo debito.
Godetevi il ponte del 2 giugno, voi che potete farlo. Perché l’estate potrebbe essere decisamente crudele. Come cantavano le Bananarama negli anni Ottanta, quando l’inflazione era al livello attuale.
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