La notizia non è certo stata un fulmine a ciel sereno, ma una cosa sono le stime preliminari, un’altra la realtà che si impone a colpi di numeri. Nel secondo trimestre di quest’anno, l’economia della Germania ha innestato la retromarcia: -0,1% fra aprile e giugno. Insomma, i campanelli d’allarme delle scorse settimane si sono tramutati in vera e propria emergenza. Non per il dato in sé, bensì per le prospettive future e per la composizione scorporata di questa contrazione. Partiamo proprio da qui, facendoci aiutare da questo grafico. Come si nota in maniera immediata, a pesare sulla lettura generale è stato il -1,3% delle esportazioni, visivamente parlando l’area di colore verde acqua che va in territorio negativo. Ma in prospettiva, anche per la nostra economia che vede in quella tedesca il suo primo partner commerciale in assoluto, a far paura deve paradossalmente essere una componente che in quel grafico risulta in area positiva: il giallo acceso dell’aumento delle scorte di magazzino, le quali hanno permesso – con il loro balzo in avanti significativo – di evitare un dato generale del Pil ben peggiore.



Insomma, lo stesso doping contabile che da Obama in poi ha garantito alla crescita Usa di restare in linea di positività anche quando le prime crepe strutturali affioravano dal muro della propaganda. Ma quelle scorte, di fatto, possono tramutarsi in due voci: divenire export, se ripartirà la domanda e cesserà il clima depressivo acuito dal conflitto tra Cina e Usa. Quindi, spingere il Pil tedesco verso l’alto in modo “sano”. Oppure aumentare ulteriormente, sintomo che le merci restano nei capannoni, perché non c’è domanda: quando diventano troppe, però, ciò che si guarda è il loro effetto frenante su produzione e occupazione, non più il doping sulla crescita.



Perché se ho già le scorte ai massimi e non ho prospettive di vendita, smetto di produrre. O, quantomeno, rallento le linee di produzione. Tagliando posti di lavoro. E non assumendo nuovo personale. E non investendo in CapEx. E signori, germanofobia sovranista a parte, se si pianta la Germania, il nostro Nord produttivo va in crisi strutturale. Il che significa, medesime dinamiche negative sul mercato del lavoro, Pil in picchiata e forte rischio di aumento delle criticità bancarie legate a scadenze da onorare, prestiti o fidi o mutui. A cascata. Signori, quell’area gialla in aumento è il vero rischio. E di prospettive a breve termine, stante il patetico e sempre più pericoloso balletto fra Usa e Cina, ce ne sono poche. Come di certezze su cui basare una speranza che non sia vana.



Una risiede nelle parole di Olli Rehn al Wall Street Journal di metà agosto, ovvero il fatto che al board del 12 settembre prossimo la Bce stupirà tutti, mettendo in campo un piano di stimolo oltre le previsioni. Basterà? No, almeno stando ai risultati reali del primo ciclo di Qe, quello falsamente terminato lo scorso 31 dicembre. Però, quantomeno, sarà una ciambella di salvataggio cui aggrapparsi, in attesa di essere salvati. C’è però un problema, il quale ha epicentro ancora in Germania e che si sostanzia in prima istanza in questo secondo grafico: i depositi presso le banche tedesche, stando al dato dello scorso 30 giugno, sono al massimo record, circa 3 triliardi di euro, di cui oltre 2,3 facenti capo a clientela retail. Ovvero, risparmiatori privati. Piccoli, medi e grandi. In seconda battuta arriva la Francia, poi l’Italia con il suo tesoretto creditizio ben oltre il triliardo di euro.

Qual è il problema? Anche in questo caso, come per il dato del Pil tedesco, occorre guardare la questione da un punto di vista contrarian: il fatto che famiglie e imprese abbiano forti quantitativi di risparmio è importante per una società, il problema è che alla base della politica monetaria globale – e della Bce – c’è l’ormai obbligatorietà della discesa in campo di tassazione negativa sui depositi. E, come sapete, quel -0,40% che gli istituti pagano sulle riserve in eccesso depositate overnight presso l’Eurotower sta già pesantemente erodendo la profittabilità bancaria europea, tedesca e francese in testa.

Certo, nel piano teorico di intervento della Bce è contemplato il cosiddetto tiering, ovvero la diminuzione o la diluizione nel tempo del tasso dovuto dalle banche per i propri depositi, una manovra di off-set che garantirebbe circa 3 miliardi di “respiro” agli istituti ma questo non basta. Perché se la profondità della crisi che abbiamo davanti appare quella che tutti gli indicatori macro ci offrono, occorrerà arrivare a zero e forse anche in negativo anche con i tassi di riferimento principali, i benchmark, non più solo con quelli di deposito. I quali, temo, non potranno a loro volta restare al -0,40%, se la dinamica generale sarà quella ribassista strutturale sul costo del denaro. E con Deutsche Bank e Commerzbank che lottano ogni giorno per sopravvivere, al netto di capitalizzazioni ormai ridicole rispetto all’esposizione di portfolio, come si fa a pensare che una ricetta simile possa essere accettata dalla Germania?

La quale, però, deve accettare la sfida dell’equilibrismo, poiché la Bce colpirà da un lato con il bastone, ma dall’altro brandirà la carota delle aste di rifinanziamento bancario a lungo termine e il più che probabile acquisto anche di bond corporate, sgravando quindi il sistema bancario europeo di parte del peso del finanziamento delle imprese attraverso il canale classico del prestito. Quale il rischio, a brevissimo termine e con richiami enormi e immediati anche alla crisi politica in atto in Italia? Queste due tabelle riportano tutti gli ultimi e più aggiornati sondaggi dei principali istituti demoscopici tedeschi rispetto al voto di domenica prossima, 1 settembre, nei Land di Sassonia e Brandeburgo, ex Germania Est.

Bene, come vedete, Alternative fur Deutschland è in vantaggio in quest’ultimo e anche in Sassonia potrebbe fare il colpaccio. E qual è la base della campagna elettorale del partito nazionalista-sovranista, alleato a livello europeo della Lega del ministro Salvini? L’Europa che, attraverso la Bce che deve salvare le cicale italiane e spagnole, sta erodendo e rubando i risparmi dei tedeschi. Nemmeno a dirlo, l’appeal di questa argomentazione sta spianando la strada a quello che potrebbe essere visto come un risultato spartiacque. Il quale, se dovesse sostanziarsi, potrebbe portare a una crisi politica totale nel governo di Angela Merkel, a quel punto a fortissimo rischio di implosione.

Cosa accadrebbe se dovesse saltare il tappo del Paese che da sempre rappresenta la quintessenza della stabilità e della pragmaticità politica? Oltretutto, con l’Austria già in campagna elettorale, Spagna a un passo dall’ennesimo ritorno alle urne e Italia impegnata in uno spericolato esercizio di trasformismo parlamentare? Cosa augurarsi, quindi? Che Alternative fur Deutschland vinca la sua scommessa basata sul timore dei cittadini tedeschi per i loro risparmi o che prevalga il senso di prospettiva, ovvero rendersi conto che senza il seppur doloroso e sgradito intervento diretto della Bce, la prospettiva sia quella di un 2008 ben peggiore?

Perché mi piacerebbe davvero sentire, dalla voce dei nazionalisti tedeschi, quale sarebbe la loro ricetta per Deutsche Bank e Commerzbank: un salvataggio di Stato? Pagherebbero comunque i correntisti tedeschi, in questo caso sotto forma di contribuenti. In compenso, senza un contrappunto da bazooka come quello dell’Eurotower, come rimetterebbero in piedi quell’orrenda area di colore verde acqua nel grafico del Pil? E, soprattutto, come riporterebbero a un livello equilibrato quella ancora più brutta, di colore giallo acceso, delle scorte di magazzino ai record massimi? Signori, ho contestato l’Europa per anni e continuo a ritenerne alcuni fondamenti totalmente sbagliati e illiberali. Ma è il caso di parlarci chiaro: quella davanti a noi non è l’ennesima crisi ciclica, potrebbe essere l’ultima del suo genere. Potrebbe essere quella da day after, perché ormai le liabilities sono enormi e le armi in mano ai regolatori limitate e già utilizzate: la Germania forse sopravviverà. Ma l’Italia? Non sempre ciò che appare giusto per l’oggi, vale anche per il domani.