È passata un’altra settimana, l’estate ci ha (per quanto mi riguarda, finalmente) detto addio anche climaticamente e il governo Conte 2.0 ha giurato al Quirinale, dopo un breve ma intenso travaglio. Ora, in attesa del passaggio alle Camere per la fiducia di lunedì e martedì, è giunto il momento per il breve punto della situazione del weekend.
Cosa muove il mondo, amici miei? Tranquilli, non sono stato colto da un attacco di millenarismo, Savonarola non si è impossessato della mia mente e del mio spirito. Semplicemente, sono stanco di sentire idiozie, tipo che Borsa e spread si sono messi a volgere al bello, solo e soltanto perché il mercante di paure Salvini è stato scacciato dal tempio. Il mondo, inteso in questo caso proprio come economia e finanza, gira attorno a questo.
E gira attorno a questo soltanto: i saliscendi, gli stop-and-go del chicken game commerciale fra Usa e Cina. Il resto è contorno. Di qualità scadente, fra l’altro. Sta tutto in quell’andamento anomalo, da elettrocardiogramma alterato, la chiave di lettura: non a caso, dal marzo scorso i mercati ci hanno abituato a tonfi e rimbalzi (più o meno del “gatto morto”), ad andamenti a scossoni. Per la gioia della speculazione. E di chi necessita di un appiglio strutturale di tenuta, in attesa che le Banche centrali entrino di nuovo nella cabina telefonica del Qe globale e sincronizzato e ne escano travestite da super-eroe. È tutto qui, niente di più. Ed era tutto pre-ordinato.
Il problema, quello vero, non è che la politica europea e italiana ci vogliano invece vendere la panzana della stabilità di governo, dello spread, della flessibilità responsabile. Quelle sono baggianate buone per i talk-show. No, il problema sta nel danno strutturale che si sta sostanziando in giro per i mercati nel periodo di attesa dominato dalla pantomima sino-americana (come avete visto, i dazi sono ancora belli fermi al loro posto e da due giorni gli indici festeggiano un perenne Capodanno, dopo la notizia dell’ennesima ripresa del dialogo a ottobre e il taglio dei requisiti di riserva per le banche del Dragone). Insomma, un altro mese di tempo guadagnato, altro calcione al barattolo. As usual.
Nel frattempo, il 12 settembre si riunisce il board Bce e il 18 quello della Fed: qualcosa accadrà. Per forza, dico io. Sapete, in realtà, in quale mondo stiamo vivendo, mentre vi riempiono la testa di programmi politici da barzelletta o complotti europei, veri o presunti? In questo.
Un universo talmente folle che vede non solo in circolazione due bond sovrani con scadenza a 100 anni, ma addirittura una biforcazione che è in sé un atto d’accusa e la nostra potenziale sentenza di condanna a morte da debito inestinguibile. Guardate, partendo più o meno alla pari nell’autunno di due anni fa, le traiettorie di prezzo delle obbligazioni a lunghissima scadenza di Argentina e Austria: la prima si è letteralmente schiantata al suolo, visto che oggi prezza 38 centesimi sul dollaro (sei mesi fa era alla pari). Il bond di Vienna, invece, è letteralmente volato come valutazione, visto che oggi prezza a 203. Chi avesse acquistato entrambe le obbligazioni a febbraio 2018, oggi si ritroverebbe come un 26% di total return!
Ma signori, siamo alla follia. È folle che l’Argentina si sia permessa di emettere carta a 100 anni e ancora peggio che ci sia stata la fila per comprarla. È folle, quasi criminale, che dopo aver trattato con l’Fmi per ottenere il prestito più ingente della storia dell’istituzione di Washington (57 miliardi di dollari), Buenos Aires abbia riaperto le sottoscrizioni di quella stessa carta. E che, purtroppo, ci fosse ancora la fila, ancorché meno lunga.
È invece naturale, quasi sintomo di una giustizia divina che interviene, il fatto che un Paese con un’economia e una classe politica corrotta e disfunzionale come l’Argentina non sia in grado di stare in piedi nemmeno se annegata di denaro e, già oggi, stia chiedendo dilazioni sui pagamenti degli interessi sul debito a breve termine. Per quelli che parlano bene, un re-profiling del programma. Tradotto, calciare il barattolo in avanti e sperare in un miracolo. O, più facilmente, in un haircut concordato stile greco o ucraino che faccia pagare ai detentori di quella carta suicida – istituzionali, ma probabilmente anche privati – il costo dell’incapacità di governanti e Fmi.
E se degli speculatori di professione non mi interessa nulla, mi piange il cuore invece per chi si è fatto infinocchiare da portafogli e piani di investimento a rischio formalmente bilanciato che, invece, stante i rendimenti in crollo ovunque, hanno deciso di inserire un po’ di titoli esotici, tanto per garantire un po’ di return ai clienti e non farli lamentare (e recedere in anticipo). È un enorme casinò popolato da imbonitori da quattro soldi, venditori di pentole anti-aderenti sui pullman delle gite a Gardaland e truffatori da autogrill. Questo è oggi il mercato, almeno per l’80%. Abbondante.
Certo, basta starne alla larga. Ma attenzione, perché tutto è interconnesso ormai. E come i mercati finanziari patiscono direttamente gli effetti della guerra commerciale e politica fra Pechino e Washington, così anche l’economia reale. La quale, a sua volta, dipende dal credito e dalla sua facilità di accesso, sia esso bancario che sull’open market. E questo non ve lo stanno dicendo, amici miei. Vi stanno vendendo l’ennesima pagliacciata di programma di governo, vi stanno vendendo come grande rivoluzione di equità e sviluppo il Green New Deal, sui cui effetti nefasti e di mero travisamento di quella che in realtà è spesa pubblica improduttiva e assistenziale, vi ho messo in guardia in tempi non sospetti, parlando della stella politica (grazie a Dio, già cadente) di Alexandria Ocasio-Cortez.
Signori, piaccia o meno, il Pil di questo Paese lo tirano avanti tre, quattro regioni: Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna. L’industria è lì, non è questione di sciovinismo o razzismo: si chiama realtà, dato di fatto, numeri riscontrabili. Roba da Istat, molto establishment. E non si tratta ovviamente di gettare a mare tutto il resto della nazione, bensì di evitare di far correre con i pesi alle caviglie quei territori e quei clusters produttivi che – non fosse altro per il residuo fiscale che garantiscono alle casse statali, di tutti – mantengono minimamente in carreggiata tutta la baracca, in vista della contrazione generale in arrivo e della già presente stagnazione interna, certificata e confermata non più tardi di ieri dall’Istituto nazionale di statistica. E cosa sta per accadere? Ce lo dicono questi due grafici, che vi consiglio di stampare e attaccare al muro, a mo’ di promemoria.
Il primo ci mostra i risultati di vendita del mercato automobilistico indiano di agosto, freschi freschi di pubblicazione da parte delle stesse case produttrici: un bagno di sangue. L’ennesimo, di fila. Direte voi: con tutto il rispetto e l’umana fratellanza, chissenefrega delle vendite di auto in India. E invece no, siamo di fronte all’ennesimo, enorme e spaventoso proxy, perché dopo quello cinese, il mercato indiano era ritenuto fino a non più tardi dell’anno scorso il secondo più in espansione prospettica al mondo. Quindi, una frontiera in cui anche i grandi marchi europei e Usa avevano investito e su cui puntavano a livello di quote di mercato, a fronte dei cali in Occidente e della rivoluzione dell’ecologico. Bene, la Cina sta rallentando a vista d’occhio e il governo ha dovuto già far partire l’ennesima operazione di incentivo all’acquisto, mentre l’India si è letteralmente schiantata.
Il secondo grafico, invece, ci mostra come la produzione industriale tedesca – di cui il settore automotive è parte trainante – su base annua sia in calo costante da 9 mesi di fila. E signori, i segnali non sono incoraggianti da qui a fine anno. Anzi. Unite i due dati e pensate a chi fornisce la grandissima parte della componentistica solo dell’industria automobilistica, tedesca e non solo: le fabbriche del Nord Italia. Le Pmi, quelle che combattono ogni giorno con le quote di mercato, ma soprattutto con tasse e accesso al credito.
Quali risposte intende dare il governo a quella che, entro novembre, sarà divenuta emergenza assoluta? Con una bella tirata ideologica del neo-ministro Boccia contro le diseguaglianze dell’autonomia richiesta da Lombardia e Veneto? Facciano pure. Ma poi non si azzardino a scomodare il fascismo, il razzismo, il leghismo o chissà quale altra idiozia serbino nel loro archivio degli alibi, quando i ceti produttivi diranno basta. E non inondando le piazze o ricorrendo alla violenza, come farebbe propagandisticamente comodo a qualcuno. Bensì, semplicemente, facendo una scelta fra chiudere l’azienda, licenziare i dipendenti e portare i libri in tribunale o affamare la Bestia fiscale che deve mandare avanti il carrozzone elettoral-propagandistico di Pd e M5s e delle loro ricette da Bengodi del grattarsi la pancia, ovviamente declinate in abito green.
Attenzione davvero, stavolta stanno scherzando con il fuoco dell’economia reale. Quella che abbaia poco, a differenza delle istituzioni Ue ma che, se si sente in pericolo reale, morde. E molto. Nel centrodestra (o in ciò che di esso rimane), finora non si ode un solo fiato al riguardo: Lega e FdI continuano con la propaganda incentrata sulle boiate alla Bannon e gli attacchi parossistici alla Germania – con cui i nostri imprenditori lavorano, alla luce di un interscambio record per due anni di fila, come confermano i dati -, mentre Forza Italia non si sa nemmeno se sia ancora viva o respiri con ausilio esterno del riflusso.
Il primo che si farà portavoce di questa silenziosa rivolta per la sopravvivenza in fieri, di questo malessere da saracinesca che ogni giorno viene alzata con maggiore difficoltà e paura per il futuro, avrà vinto. Per anni e anni, non solo per una legislatura. O, forse, qualcuno aspetta il fuoco amico di Matteo Renzi, quando il logorio quotidiano di questo governo avrà ridotto il Pd zingarettiano a danno collaterale?