Forse è il caso di cambiare strategia. E smontare in tempo reale le balle che la narrativa ufficiale ci vende, al fine di evitare che sedimentino nell’opinione pubblica e divengano totem inamovibili. Da cosa partire? Ad esempio, dal fatto che a fronte del nuovo decreto finalizzato ai sostegni per famiglie e imprese, circa 6 miliardi avanzati dal Def che andranno sostanzialmente a operare da pannicello caldo sul caro-bollette e poco più, questo Paese ha dovuto prendere atto che ci sono interi settori imprenditoriali che dipendono quasi totalmente dal mercato russo. Ovvero, sanzioni equivalgono a chiusura.
L’ultimo esempio quello dei 31 operatori del settore calzaturiero marchigiano che si sono sobbarcati un giorno e mezzo di viaggio via Dubai-Turchia-Serbia per raggiungere la Fiera della calzatura a Mosca. Il 70% di ciò che producono dipende da quel mercato. E giustamente, la Regione Marche ha sostenuto il costo degli stand. E i sindacati si sono detti d’accordo con la scelta degli imprenditori, poiché sono in ballo posti di lavoro. Tanti. E, dulcis in fundo, la fiera russa è totalmente organizzata da Bologna Fiere. In alcuni casi si tratta di PMI che hanno in magazzino 5.000 paia di scarpe destinate alla Russia e che senza gli accordi e gli anticipi dei buyers presenti alla kermesse moscovita, iniziata martedì e che si conclude oggi, rischiano di chiudere per sempre la serranda. Chi manterrà le famiglie loro e dei loro dipendenti? Zelensky? O Biden?
Certamente non il Governo italiano, visto che a disposizione ci sono solo 6 miliardi per coprire tutte le emergenze economiche (attuali e non quelle devastanti che il blocco del porto di Shanghai ci preannuncia per l’autunno) e la principale preoccupazione del risanato presidente del Consiglio pare quella di andare a Kiev e poi a Washington. Di fatto, più realisti del Re. Più belligeranti delle parti in causa. Totalmente schierati e pronti all’invio di armi pesanti, come annunciato a quel palese e doloso boicottaggio della missione Onu in Russia che è stato il vertice di Ramstein. Non a caso, poi, convocato nella località tedesca per mettere pressione sul Governo Scholz, il quale stranamente proprio in quella sede ha operato un clamoroso voltafaccia rispetto a quanto annunciato solo tre giorni e prima e confermato l’invio a Kiev di carri armati con sistemi anti-aereo Gepard. Zio Sam ha richiamato tutti all’ordine. E tutti hanno sbattuto i tacchi. Imprese e lavoratori? Si arrangino.
Sembra quasi che all’atto del giuramento di fedeltà alla Repubblica, i ministri in carica abbiano confuso Roma con Kiev, quando si è trattato di confermare il perseguimento esclusivo del bene del Paese. Non a caso, Enrico Letta ha fiutato l’aria. Peccato che la sua toppa alla situazione sociale in rapido peggioramento sia stato peggiore del buco: «L’inflazione ci accompagnerà nei prossimi mesi, noi vorremo che così non fosse ma dobbiamo esse consapevoli che rischiamo una situazione per colpa della guerra di Putin, non della resistenza ucraina. Voglio respingere un messaggio, la colpa non è della resistenza all’invasione. La colpa è di chi ha invaso». Così, intervenendo in una trasmissione Rai e interrogato sul nodo spinoso delle retribuzioni, il Segretario del Pd ha cercato di mettere le mani avanti. Era dal 2016 e dal Russiagate che un politico non adoperava in maniera così disperata la strategia del blame on Putin: all’epoca fu Hillary Clinton nel tentativo di giustificare la sconfitta contro Donald Trump. E la ragione è semplice: disperazione, appunto.
Perché se questo grafico mostra plasticamente quale sia stato il contributo dell’intervento armato russo in Ucraina sul trend inflazionistico statunitense, praticamente nullo e nei fatti un proxy anticipatorio di quanto stiamo vivendo in Europa, la realtà che sottendeva quell’uscita populistica, falsa e infelice stava tutto nel titolo de Il Sole 24 Ore di mercoledì.
Dopo la proposta del ministro Orlando di legare gli incentivi alle imprese agli adeguamenti salariali e al rinnovo dei contratti delle stesse nei confronti dei dipendenti, già definita con garbato eufemismo un ricatto da parte degli imprenditori e terminata non a caso nel titolo di apertura del quotidiano di Confindustria, ora il problema dell’erosione del potere d’acquisto si fa serio.
Primo, perché l’inflazione è ben lungi dall’essere transitoria. Secondo, perché le elezioni amministrative di avvicinano e anche la legislatura volge verso la sua fine. Quindi, occorre cominciare a fare i conti con il consenso e il bacino elettorale. Terzo e fondamentale, nel Def ci sono appunto solo 6 miliardi a disposizione delle politiche di supporto, fra cui gli aiuti contro il caro-energia. Quindi, la strada maestra resta quella di un frontale con Mario Draghi per ottenere un nuovo scostamento di bilancio. Quel deficit che, però, l’Europa non ci consente, salvo attivazione del Mes.
E a dirci no sarebbe proprio un uomo del Pd ed ex presidente del Consiglio, quel Paolo Gentiloni ora commissario agli Affari economici. Un disastro. Ma se pensate che l’ipocrisia sia il pane quotidiano solo delle nostre istituzioni con l’elmetto, questo grafico vi mostra ex ante come anche il prossimo pacchetto di sanzioni dell’Ue, quello che dovrebbe comprendere il petrolio russo (ma non il gas, visto che già 4 operatori europei stanno pagando in rubli e 10 hanno aperto conti presso Gazprombank per la conversione) sia nulla più che l’ennesimo esempio di fumo negli occhi.
Al netto di uno stop all’import di greggio degli Urali che non dovrebbe comunque scattare prima della fine di settembre, la tabella ci mostra non solo come le esportazioni di petrolio russo siano aumentate ad aprile rispetto a marzo (1,6 milioni di barili al giorno contro 1,3 milioni), ma anche come – di colpo – sia esplosa la voce sconosciuta fra le destinazioni delle rotte dei tankers che trasportano quel greggio. Insomma, il giochino che da sempre conducono i Paesi sotto embargo per continuare a esportare, Iran e Venezuela in tal senso sono maestri: i carichi di petrolio russo vengono portati in alto mare e qui smistati su altri vassels, dove vengono mischiati pur mantenendo una percentuale di Urals altissimo. Di fatto, è petrolio russo in predicato di embargo che invece viene acquistato dai sanzionatori. Ma ufficialmente, nessuno sa (o meglio, tutti fingono di non sapere) la destinazione finale. E quindi il compratore. Con l’ulteriore assicurazione formale fornita da quel processo di mini-blending al largo che intorbidisce ulteriormente e ipocritamente le acque.
Ecco l’Europa che finge di fare la voce grossa e ora vende all’opinione pubblica il nuovo pacchetto di sanzioni come grande reazione di orgoglio e unità al blocco dei rifornimenti operato da Gazprom contro Polonia e Bulgaria. Non solo finora ha comprato greggio russo con il badile, ma, a occhio e croce, continuerà a farlo fino al prossimo settembre, ingolosita da uno sconto sul Brent ancora altissimo. Quindi con una mano arma Kiev contro Mosca e con l’altra finanzia la Russia e la sua campagna militare. In un certo senso, un distorto ma efficace concetto di neutralità.
Attenti, perché la disinformazione sta aumentando a dismisura i suoi sforzi. Da un lato, buon segno, poiché ricalca in pieno la parabola di disperazione in cui è incappato il Segretario Pd con la sua sparata sull’inflazione bellica. Dall’altro, il rischio di venire risucchiati in un vortice di conventio ad excludendum sociale e politica degli eretici sale di molto. Esattamente come durante la pandemia. Occorrono spalle larghe, quindi. E anche qualcos’altro, fisiologicamente situato più in basso.
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