Se l’indicatore preferito dalla Fed in fatto di tracciamento dell’inflazione (PCE) sale del 3,1% su base annua contro le attese già allarmate (e allarmanti) del +2,9%, segnando l’aumento maggiore dal maggio 1992, significa che di transitorio la dinamica dei prezzi ha decisamente poco.
Ma se in molti temono la riapertura del mercato di martedì prossimo (domani negli Usa si festeggia il Memorial Day), stante la scoperta di una tassa sul capital gain retroattiva presente nel budget da 6 triliardi targato Joe Biden, altri guardano a un orizzonte più temporalmente dilatato.
Per la precisione a settembre, quando la stimmy money del programma di sostegno federale andrà a esaurirsi, ponendo sotto pressione il potere d’acquisto di qualche decina di milioni di americani. I quali, giova ricordarlo, vedono oggi il 34% del proprio reddito garantito proprio dai trasferimenti di welfare, come mostra il grafico.
Il perché è presto detto: all’interno dei panieri ufficiali con cui viene calcolata l’inflazione negli Stati Uniti non compare una voce che venerdì pomeriggio ha fatto sussultare più di un analista. Ovvero, gli affitti. I numeri contenuti nel June Apartment List National Rent Report parlano chiaro: a livello nazionale, l’indice ha segnato un +2,3% tra aprile e maggio, l’incremento maggiore su base mensile da quando è stata inaugurata la tracciatura della serie storica (gennaio 2017). Di più, si tratta del terzo mese di fila in cui questo primato viene infranto, dopo il +2% di aprile e il +1,4% di marzo.
Ma è questo grafico a far riflettere: proprio in riferimento a questo recente balzo del trend, oggi il livello di aumento degli affitti su base annua e con riferimento nazionale è del +5,4%, un target che porta le valutazioni ad annullare completamente il crollo vissuto nel corso del 2020 a causa della pandemia. Insomma, come se la crisi degli affitti da Covid non fosse mai occorsa.
E la linea tratteggiata della proiezione vede comunque la diminuzione attesa come molto limitata, tanto da ritenere che l’attuale dinamica sarà alla fine la stessa anche il prossimo dicembre (dopo un aumento ulteriore in estate). Il tutto – però – con una disponibilità reddituale da parte dei cittadini che per quel momento sarà drasticamente ridimensionata. Ma c’è di peggio. Se infatti quattro delle nove città che lo scorso anno patirono i crolli delle valutazioni maggiori sono ora tornate in trend positivo (San José, Washington, Boston e Minneapolis) e hanno addirittura registrato aumenti degli affitti negli ultimi cinque mesi consecutivi, è l’America profonda quella che sta già oggi scontando un’erosione devastante del potere d’acquisto legata a questa voce di spesa inderogabile, al pari del cibo. Questo grafico fa infatti riferimento a dieci città statunitensi pressoché sconosciute al grande pubblico, le quali però hanno registrato i maggiori incrementi in termini assoluti.
In cima alla lista, Boise, Idaho. Stato quest’ultimo finora noto solo per la quasi omonima canzone dei B 52’s ma destinato potenzialmente a diventare il riferimento per la prossima ondata di crisi abitativa-immobiliare, a detta di qualcuno in grado di far impallidire persino quella legata ai subprime del 2007-2008. Se infatti vivere in affitto a Boise soltanto il mese scorso ha comportato un aumento del 6,6%, traslato su base annua l’incremento è stato addirittura del 31%. Parliamo di appartamenti nella capitale dell’Idaho e non a New York o Los Angeles o Miami.
Cosa ci dice tutto questo? Semplice, almeno stando a chi segue con attenzione le implicazioni del mercato immobiliare sulle più ampie dinamiche macro di economia e politica monetaria. Essendo gli affitti i cosiddetti missing pieces – i pezzi mancanti – dei panieri ufficiali di rilevazione dell’inflazione, sia CPI che PCE, c’è il forte rischio che l’ondata inflazionistica in atto non sia solamente tutt’altro che transitoria ma di magnitudo reale ben più ampia di quella per ora solo percepita, stante il costante sostegno federale ai redditi.
E una conferma di quanto la Real America potrebbe patire la fine del grande inganno legato al contrasto della pandemia inteso come helicopter money arriva da questa immagine: un ristorante McDonald’s di Altamont, Illinois, vede lo store manager talmente disperato nella ricerca di personale da offrire – oltre all’impiego – anche un iPhone, dopo sei mesi di occupazione e il raggiungimento di alcuni requisiti.
Tradotto? La ricerca disperata di lavoratori spingerà paradossalmente al rialzo i salari offerti – oltre a far proliferare “pacchetti” come questo – al fine di competere con i sussidi garantiti dal Governo, erodendo però i margini dei datori di lavoro. E se questa dinamica per piccole imprese potrebbe comportare fallimento e chiusura tout court, nel caso del gigante dei fast food si potrebbe sostanziare in un probabile addio a offerte speciali e menù a 1 dollaro. Ma quando a settembre la transfer window federale sarà terminata, in molti chiederanno a gran voce il ritorno di quelle combo a prezzi calmierati. Quantomeno per risparmiare sul cibo e riuscire così a pagare l’affitto. Soprattutto per chi ha il privilegio unico di vivere a Boise, Idaho.
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