Dopo il dato dell’inflazione statunitense, l’esercito dei negazionisti ha dato vita alla diserzione definitiva e finale. Non trovi più un economista o commentatore finanziario che rivendichi la natura transitoria dell’aumento dei prezzi in atto, nemmeno a pagarlo. E, ovviamente, tutti erano convinti di questo epilogo fin dall’inizio. Lascio a voi, se ne avrete voglia e tempo, l’onere di fare una carrellata degli articoli dei mesi scorsi – anche su questo sito – e valutare i vari tassi di credibilità.
Il passo successivo, si spera, sarà quello di prendere atto che il disastro a cui stiamo assistendo sia figlio naturale e legittimo del Qe. A quel punto, però, l’iconoclastia sarà al potere e ci sarà da divertirsi davvero. Perché i mantra, gli slogan e i totem saranno caduti. E la gente dovrà davvero dare delle spiegazioni ai fenomeni economici e finanziari con cui dobbiamo confrontarci, magari sforzandosi persino di scomodare qualche numero, qualche grafico e qualche percentuale e non solo citando oscuri economisti uzbeki del 1700 o generali di retroguardia dell’esercito napoleonico con le loro illuminanti teorie bellico-economiche.
Perché signori, l’impennata dei prezzi che abbiamo di fronte e che per quanto riguarda gli Stati Uniti oggi è al livello del 1981, nasce oggettivamente da un processo speculativo. Inutile negarlo, è nei fatti. Il problema sta nel perché quel trend abbia preso piede e si sia sviluppato su livelli tali da generare un impatto sul CPI di questo tenore e a su scala globale, visto che l’inflazione è ormai fuori controllo anche in Cina nel segmento dei prezzi alla produzione e in Europa nell’avanguardia di filiera della bolletta energetica. I tassi a zero perenni che garantiscono denaro a costo altrettanto zero: a quel punto, cosa si fa? O si accetta di investire in assets a rischio che però non generano più i returns di un tempo oppure ci si lancia – in massa – in qualcosa di più esotico e interessante, ad esempio un’incursione tutt’altro che benigna e supportata da necessità macro (acquisti di futures ma senza delivery) verso le materie prime.
Detto fatto, innescata la spirale, è stato come gettare un mozzicone di sigaretta acceso in una pineta. È bastato un innesco meno umido degli altri (il gas naturale) per scatenare l’incendio. Prima una fase di ripresa turbo dalla prima ondata di pandemia che ha spinto la domanda, poi un freno da seconda ondata che ha visto le valutazioni restare comunque alte proprio perché supportate da un ambiente circostante di denaro ulteriormente in libera circolazione per i Qe e i programmi statali di sostegno messi in campo. E, infine, la seconda ripresa dell’economia, ulteriore dinamo dei rialzo su base apparentemente giustificata di maggiore domanda. Oggi, nuova ondata – casualmente, nel pieno di un rallentamento economico globale e generalizzato fin dalla tarda estate – e, soprattutto, policy error fatale delle Banche centrali all’orizzonte.
Perché tutto si prezza e si anticipa sul mercato, le reazioni furibonde che finiscono sui giornali sono solo la coda di quanto accade realmente. Come certi sfoghi di rabbia che trascendono: non nascono mai dall’ultima ingiustizia subìta, ma sono la conseguenza di un accumulo di torti che alla fine esplode. In malo modo.
Ora, guardate questo grafico: alla base di quello che potrebbe essere appunto il policy error fatale, c’è la dinamica rappresentata in questa immagine. La ragione, di fatto, per cui la Fed ha sposato la narrativa della transitorietà dell’inflazione e ha lasciato che per trimestri quei trend crescessero indisturbati. Anzi, concimati da un Qe di cui non si conosceva la data di tapering.
Oggi, poi, l’estremo azzardo. Al netto dello scale back degli acquisti mensili per un controvalore di 15 miliardi che sta partendo, Jerome Powell ha giocato un’unica carta nella sua conferenza stampa di una settimana fa: tapering non significa tightnening. Ovvero, il programma di acquisti può rallentare fino a terminare il prossimo giugno, ma questo non comporta alcun automatismo con il rialzo dei tassi. E quel grafico mostra l’errore madornale su cui si basa questa certezza che il mercato tanto anela: con un tasso di partecipazione alla forza lavoro di fatto immobile negli ultimi 18 mesi, la Fed ritiene che la fiammata dei prezzi sia destinata a rimanere tale e avere profilo appunto di transitorietà, poiché non accompagnata da un fondamentale supporto di incremento salariale di scala. Quindi, avanti così: il taper abbia inizio ma i tassi restano a zero, perché comunque l’inflazione è destinata a sgonfiarsi da sola nell’arco di pochi mesi.
Peccato che questo ragionamento folle rappresenti la base delle scelte della Fed da almeno tre trimestri: e quale trend abbia imboccato nel frattempo l’inflazione è noto a tutti. Siamo al picco? Nessuno, in cuor suo e in piena onestà intellettuale, può dirlo. Certo, l’intervento statale sul prezzo del carbone in Cina può aver generato un tetto artificiale che già dal mese prossimo veda calare il PPI (prezzi alla produzione) del Dragone, ma l’America è altra cosa. E ce lo mostrano questi due grafici, realmente allarmanti.
Il primo visualizza plasticamente la composizione percentuale dell’aumento dei prezzi negli Stati Uniti: come notate anche la narrativa da i soliti sospetti, ovvero prezzo di benzina e auto usate, è andata in pensione, perché gli aumenti sono appunto across the board. Generalizzati. Ovunque. Su ogni voce del paniere e categorie merceologica. La seconda immagine è paradossalmente ancora peggiore, poiché mostra come nel dato pubblicato mercoledì non vi sia ombra del proverbiale bicchiere mezzo pieno: anche ricalcolando il tasso di inflazione rimuovendo dalla platea le auto, gli affitti, le tariffe aeree e quelle degli alberghi, il CPI statunitense è comunque in aumento del 5,4% su base annua. E le pressioni si stanno già facendo sentire sulle dinamiche salariali – gonfiate dagli aumenti che i datori di lavoro hanno forzatamente posto in essere per strappare la manodopera al divano e all’assegno federale -, proxy del fatto che l’inflazione crescente sia sempre più embedded nell’economia americana. Incorporata, per capirci.
Qui di transitorio, cari signori, non c’è proprio nulla. È strutturale e sistemico. Anzi, peggio ancora: di ciclo. E non nella sua fase terminale, come invece è il Qe nell’era (quantomeno formale) del tapering. Mi spiegate, ora, come si può affrontare una dinamica simile senza alzare i tassi o senza far esplodere la bolla? Io, sinceramente, non lo so. E nemmeno riesco a immaginarlo.
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