Ieri il Dipartimento del lavoro americano ha pubblicato il dato sull’inflazione di marzo. I prezzi sono saliti del 2,6%, contro attese di un rialzo del 2,5%, rispetto a marzo 2020 facendo segnare il maggior rialzo da agosto 2018. L’indice include componenti che hanno avuto andamenti molto diversi; i prezzi degli alimentari sono saliti sensibilmente di più, 3,6%, ma anche i prezzi della benzina, oltre 20%, e quelli del gas, quasi il 10%, hanno mostrato rialzi più alti della media. Di segno opposto è stato l’andamento degli indumenti e dei trasporti. Ancora una volta il dato, spacchettato nelle sue componenti, mostra un andamento che “punisce” maggiormente i redditi bassi in cui la componente dedicata ad alimentari, benzina, e bollette del gas è molto alta rispetto al totale. Questi sono acquisti indifferibili e necessari a differenza, per esempio, di quello di un indumento nuovo.



La Federal Reserve è consapevole di quello che sta accadendo ai prezzi e “ci spiega” che il fenomeno è temporaneo e legato alla ripresa dopo la fine delle restrizioni che sono state imposte per la pandemia. La tesi è che l’aumento dei prezzi è un male necessario e forse persino auspicabile sulla strada della ripresa economica. I mercati finanziari sono ancora volatili, le tensioni sui bilanci delle società dopo un anno orribile ancora forti e i debiti dei Governi, sostanzialmente senza eccezioni, sono “esplosi”. La Fed, che deve continuare a “stampare”, ci assicura che ha gli strumenti per far rientrare il problema se dovesse diventare troppo grande, ma nel frattempo la politica monetaria non cambierà nel breve-medio termine. 



La questione, per ora, è al centro del dibattito dei mercati, ma il tema è assolutamente “politico”. Se la ripresa non arriva in fretta e non coinvolge rapidamente tutti i settori, quello che rimane è l’aumento dei prezzi. I Governi, quello americano in primis, possono certamente insieme alle Banche centrali continuare a mettere sui conti correnti delle famiglie diverse centinaia di dollari alla settimana, ma il problema rimane. Nello schema attuale in cui si privilegia l’intervento governativo e la spesa pubblica mentre, sottolineiamo, moltissime attività “private” lavorano ancora a singhiozzo, causa restrizioni, e si cerca oltretutto di ristrutturare i modelli economici in senso “green” e di “uguaglianza”, la certezza è che l’inflazione arrivi sempre molto prima della ripresa e che la crescita lasci al margine per lungo tempo tanti settori e pezzi della società.



Non ci vuole un master per capire perché il problema sia innanzitutto politico; la spesa settimanale per alimentari e benzina o per il riscaldamento tocca anche chi non si è mai occupato né di finanza, né di politica. Se il fenomeno fosse temporaneo rimarrebbe confinato, probabilmente, agli addetti ai lavori; se invece continuasse e lo schema che lo produce, chiusure e spesa pubblica condite da guerra commerciale, venisse confermato, allora diventerebbe rapidamente un fattore politico e forse qualcosa di più. Quello che sta avvenendo, infatti, non è il prodotto di una formula matematica “dell’economia”, ma di scelte politiche sia sulla gestione della pandemia, sia sugli strumenti per ripartire sia, infine, sul nuovo modello economico in cui lo Stato si incarica di creare un sistema socialmente più “giusto” e “green”. Se non funzionasse più di qualcuno rimarrebbe con il cerino in mano a far quadrare i conti oppure bisognerebbe convincersi a farsi andare bene uno stile di vita infinitamente più “sobrio”.

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