Anzitutto, sgombriamo subito il capo da possibili dietrologie: il fatto che l’Italia sia tornata a emettere Btp denominati in dollari per la prima volta dopo 9 anni proprio in questo periodo, caratterizzato appunto da tensioni interne legate direttamente ai rapporti con l’amministrazione statunitense, non deve far pensare a chi sa quale segnale in codice o, peggio, a una sorta di appeasement un po’ volgarotto. L’emissione, infatti, era in fase preparatoria da un anno, quindi trattasi realmente di mera coincidenza temporale. Altra cosa, invece, è il segnale finanziario che questo atto ha voluto trasmettere ai mercati: il Bel Paese gioca la carta del player internazionale e appetibile, emettendo debito in valuta benchmark mondiale per creare appunto appeal fra i grandi investitori globali. E anche qui, nulla di strano. Anzi, un successone. Mercoledì il Tesoro ha piazzato Btp poliennali per 7 miliardi in carta a 5, 10 e 30 anni, raccogliendo richieste per un controvalore di 18.



Merito del governo Conte? No, merito di questo: il premio che l’Italia paga con la sua carta denominata in biglietti verdi rispetto ai pari durata statunitensi, i Treasuries. Un qualcosa che in tempo di rendimenti negativi globali a livelli record, equivale al richiamo del miele per gli orsi. Quindi, l’Italia si è svenata per piazzare quella carta? Formalmente sì, visto che sulla scadenza benchmark dei 10 anni, ha pagato oltre due punti percentuali in più rispetto ai Buoni denominati in euro.



Una fregatura, un suicidio, masochismo allo stato puro? No, solo ingegneria finanziaria, specchietti per le allodole. Dopo l’emissione, infatti, il Tesoro ha operato attraverso derivati – il più classico dei currency swap – e ha trasformato il bond in dollari in un titolo in euro, di fatto riallineando i costi e pagando un premio di rischio sulla denominazione molto inferiore. Comunque sia, tagliamo la testa al toro: nulla che serva realmente, se non – appunto – a offrire la cortina fumogena di un’irresistibile voglia di Italia sul mercato. Balle, è voglia di rendimento. Anzi, disperazione da rendimento. Chiunque emetta debito.



Non ci credete? Sono il solito disfattista? Fate male. Perché come mostra questo altro grafico, poche ore prima dell’emissione del Tesoro italiano – avvenuta nel pomeriggio in ossequio agli investitori d’Oltreoceano e al loro fuso orario – anche la Grecia era tornata sul mercato, esattamente con un’emissione di debito a 3 mesi per 487,5 milioni di euro di controvalore. E sapete quanto ha pagato di rendimento, avendo piazzato tutto l’ammontare senza fare un plissé? Ha pagato il -0,02%. Signori, mentre al Tesoro italiano si davano pacche sulle spalle per aver collocato debito in dollari ed essere dovuti subito ricorrere all’hedging sui costi attraverso un derivato, ad Atene aprivano una bottiglia del miglior uzo che avevano in cantina, perché da mercoledì detenere debito greco a 3 mesi è un privilegio che si paga! Non ti paga la Grecia per finanziarsi, paghi tu lei, perché ti garantisce l’onore di tenere in portafoglio la sua carta a 13 settimane!

E sapete solo nel 2017, non un’era geologica fa, quanto pagava in asta il Tesoro greco mediamente su quella stessa scadenza, pregando contemporaneamente il Signore che qualcuno la volesse? Il 2,70%. Miracoli della Bce, altro che della Troika o di Tsipras. Siamo al delirio assoluto, capite da soli che da una situazione simile si può uscire solo in un modo: con la camicia di forza. E sedati, in pieno TSO. Ma attenzione, perché l’ironia va bene fino a un certo punto. Perché, silenziosamente, i rischi stanno salendo. E al centro del problema c’è sempre e comunque il sistema bancario dell’eurozona. Avrete letto e sentito in televisione la notizia in base alla quale Unicredit, attraverso il suo amministratore delegato, dal 2020 intende caricare i costi dei tassi negativi imposti dall’Eurotower sui conti correnti troppo dormienti superiori ai 100mila euro. Altrove giungono notizie ancora più drastiche, come i 10mila licenziamenti annunciati dalla britannica HSBC o i 9mila esuberi di Deutsche Bank nella madrepatria tedesca, la metà di tutti quelli annunciati. Insomma, c’è poco da stare allegri, visto che si tratta di un settore chiave.

E perché c’è poco da stare allegri? Ce lo dicono questi due grafici, molto esaurienti. Il primo ci mostra come, a differenza degli altri mercati sviluppati globali, l’eurozona veda il finanziamento delle proprie aziende canalizzato primariamente – e in maniera netta, da sopravvivenza assoluta – attraverso proprio il canale storico del prestito bancario, piuttosto che via operazioni sul mercato di capitali (vedi, emissioni obbligazionarie). Quindi, al netto di dati macro in continuo peggioramento ormai da trimestri e da un effetto Bce che è ancora tutto da valutare sulle dinamiche reali che esulino da quelle ormai anestetizzate dei rendimenti sovrani, se grippa ancora il sistema bancario e si sostanzia un nuovo credit crunch, quella che potrebbe essere recessione rischia di diventare depressione. Chiara e semplice.

Il secondo grafico, poi, è ancora peggiore. E, guarda caso, è stato pubblicato mercoledì dalla Bce, proprio nell’intervallo temporale fra l’asta greca e quella italiana in dollari: ci mostra gli aggiornamenti dei dati relativi alle ratio di esposizione alla leva finanziaria dei vari sistemi bancari dell’eurozona, divisi per nazione. Guardate un po’ quali sono i Paesi, i cui istituti sono più carichi a bilancio di assets a rischio, se la situazione generale dovesse peggiorare? Guarda un po’, la straordinaria Grecia che occorre pagare per avere l’onore di detenere il debito e che, come ricorderete nel mio articolo di pochi giorni fa, da inizio anno vede infatti le proprie banche presentare aumenti nelle quotazioni azionarie assolutamente stellari, nemmeno fossero diventate svizzere nottetempo.

Capito come mai? Non si sconta più solo l’intervento costante della Bce e, magari, un bel favore da una delle quattro agenzie di rating per ri-ottenere quell’investment grade che permetterebbe a Christine Lagarde di comprare anche carta ellenica nel corso del prossimo Qe, ma anche il fatto che la corsa alla ricerca di rendimento continuerà, quindi vale la pena di caricarsi di assets a rischio che offrano un minimo di return. Tanto, tutti li vogliono. Come vogliono il nostro Btp in dollari o il debito greco a tre mesi. E poi, cosa potrà mai andare storto nel meraviglioso mondo delle Banche centrali?

Attenzione a dare tutto troppo per scontato, attenzione a festeggiare certe aste che sono soltanto cortine fumogene e figlie legittime di distorsioni ingestibili già nel medio periodo. I tempi dei mercati, quelli popolati da gente che rischia in proprio, sono molto ma molto più veloci di quelli impostati dalle Banche centrali per apparecchiare le tavole ai governi: e il 2008 ci ha insegnato che la palla di neve può diventare valanga nottetempo, senza che nessuno se ne accorga. O quasi. Guardate a cosa è stata costretta la Fed nelle scorse settimane, quando i tassi repo sono andati fuori controllo rispetto alla banda di oscillazione che la stessa Banca centrale statunitense aveva deciso per loro: se manca liquidità, se sale il pericolo sotto il pelo dell’acqua, il mercato morde e fa il pazzo. E la situazione attuale non è solo simile a quella pre-Lehman, è esattamente la stessa. Ma molto più grave, stante dinamiche macro in molti casi a pezzi per soggetti storicamente solidissimi (Germania docet) e un livello medio di leverage – soprattutto in ambito non finanziario – difficilmente gestibile, in caso qualcosa decida di soffiare nel verso sbagliato.

E le dinamiche già in atto da almeno tre settimane nel settore chiave dei prestiti a leva o leveraged loans (di cui, in ossequio alla ricerca di rendimento, sono stracariche tutte le banche, francesi in testa) parlano chiaro: basta poco, un po’ di sabbia nella clessidra ogni giorno, quasi senza far rumore. E poi, la tempesta nel deserto. Perché da almeno metà 2017, la febbre delle cartolarizzazioni è tornata e i bilanci hanno ricominciato a gonfiarsi di carta denominata con nomi esotici, quasi affascinanti e apparentemente innocui. Lo è anche il semtex, visto che assomiglia al Pongo che usavamo da bambini per fare gli animaletti. Finché non trova un innesco, però.

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