Se è vero che la vita è ciò che ti capita mentre stai facendo altro, l’Italia ha decisamente cominciato bene la nuova legislatura. Di fatto, lasciando che vita reale e teatrino di Palazzo vivessero a pieno questo sdoppiamento di cammino parallelo. Nemmeno un giorno e già cominciano le imboscate e i voti tattici, nemmeno un giorno e già gli scricchiolii si fanno sentire nitidi. Tutto questo, prima ancora che arrivi l’incarico dal Quirinale. Ma al netto delle strategie, è appunto interessante andare a vedere cosa accadeva sui mercati in perfetta contemporanea con la prima recita a soggetto di quel pianeta remoto chiamato politica.
Ottenuto il via libera all’aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro, Monte dei Paschi chiedeva alla Borsa cosa ne pensasse. La risposta è stata un sobrio -33% del titolo. La ragione? Semplicemente, quell’ennesimo aumento in grandissima parte a carico dello Stato non è altro che una iper-diluizione a danno degli azionisti e finalizzata a finanziare il mega-piano di esuberi. Il finale? Mps diventerà francese. Coi conti in ordine e la forza lavoro ridimensionata per tornare alla redditività. Non serve un genio per capirlo. Basta dare un’occhiata ai numeri. Perché quando il prezzo della nuova azione viene fissato a 2 euro e il rapporto di emissione è di 347 nuove azioni per ognuna di quelle ora circolanti o 3 di quelle già in possesso, è chiaro che l’epilogo è uno solo: abbattere la quota di partecipazione al capitale di chi non sottoscrive l’aumento. Detto fatto, vendite a cascata. E ulteriore conferma della natura strategica di questo aumento arriva invece dal trend inverso dei bond, visto che i subordinati hanno vissuto su tutte le scadenze aumenti di prezzo superiori al 40%.
La ragione? Semplice, lo scampato pericolo. Perché l’ok all’aumento blinda il miliardo e 600 milioni che andrà in capo allo Stato sui 2,5 totali, di fatto garantendo che il livello di capitale della banca emittente quella carta non scenda sotto la quota limite che, per legge, trasforma proprio quei bond in equity destinata a partecipare all’aumento. Non si festeggia una soluzione, solamente il rinvio del patibolo. Tutto si è basato unicamente sulla blindatura dell’operazione, a nessuno interessava realmente il livello di soddisfazione cui andavano incontro le condizioni. Perché negli ultimi giorni la paura era quella di un consorzio che puntasse i piedi nel processo di conversione del contratto da pre-underwriting a di garanzia. Insomma, al management del Monte interessava garantirsi l’ok e l’impegno delle banche sull’inoptato, ovvero ciò che restava di non piazzato sul mercato tramite l’aumento. Tutto il resto era rumore di fondo. Compreso quel -33%.
E per capire il perché basta dare un’occhiata alle cifre in gioco. Su 2,5 miliardi di aumento, infatti, 1,6 sono in capo allo Stato come azionista di maggioranza dell’istituto tramite il Tesoro con il suo 64% del capitale. A interessare davvero, perché formalmente unici che possono essere definiti di mercato, sono i rimanenti 900 milioni. Di questi, circa 600 verranno sottoscritti – in caso di inoptato – da soggetti istituzionali italiani ed esteri, fra cui AXA, le fondazioni toscane con in testa CariFirenze, il finanziere francese Denis Dumont e il fondo Algebris di Davide Serra. Questi ultimi due soggetti entrambi ex azionisti del Credito Valtellinese sotto la gestione dell’attuale Ceo di Monte dei Paschi, Luigi Lovaglio. Infine, al netto del pulviscolo che dovrebbe far capo a Casse previdenziali e fondi sondati – garbato eufemismo per descrivere una moral suasion quasi irresistibile – dal Tesoro, resterebbero quindi circa 300 milioni in capo alle banche d’affari. Ma, come ovvio, solo a fine collocamento si potrà davvero tirare la proverbiale riga. E capire meglio. Resta un fatto: dopo il primo mega-aumento da 8,2 miliardi, di cui 5,6 messi dallo Stato, ecco che nuovamente la stessa politica che litigava e si mandava a quel Paese al Senato sta garantendo gli 8-900 milioni necessari a Siena per finanziare gli oltre 4mila esuberi volontari di lavoratori di Mps. Un abbattimento dei costi che Lovaglio quantifica in 270 milioni all’anno, già a partire dal 2023. Il resto servirà a tamponare lo shortfall di capitale messo nel mirino dalla Bce, quindi a rendere la banca formalmente un cavallo di razza risanato. Ma per finire nelle mani di chi, stante l’addio dello Stato dopo un salasso da oltre 7 miliardi solo in aumenti di capitale?
Tutto questo accadeva l’altro giorno, senza che nessuno sentisse il bisogno di parlare. Tanto, sono solo miliardi pubblici. Ma non basta. Perché sempre nel primo giorno di scuola della nuova legislatura, il nostro Btp decennale benchmark segnava un balzo fino al 4,8% di rendimento, subito dopo la pubblicazione del dato sull’inflazione negli Stati Uniti. Quell’8,2% su base annua a settembre faceva paura, poiché seppur in calo dall’8,3% di agosto restava comunque sopra l’8,1% atteso dagli analisti. Insomma, il tanto agognato picco non era stato raggiunto. E quel dato CPI rappresenta l’ultimo pubblicato prima del voto di mid-term dell’8 novembre. Tradotto, esattamente come per il titolo Mps, pioggia di vendite sui Btp.
Ma ecco che a salvare la baracca di ha pensato la Bce, poiché casualmente – nel pieno dello sprofondo di metà pomeriggio – Reuters ha reso noto come i tecnici dell’Eurotower abbiano incautamente fornito un piano prospettico errato al board riunitosi la scorsa settimana a Cipro. Insomma, la cosiddetta terminal rate – il tasso neutrale da raggiungere per ritenere vinta la battaglia contro l’inflazione – è stata vittima di un eccesso di cautela. Stando ai nuovi calcoli, come mostra questo grafico, basterà arrivare al 2,25% per potersi fermare.
Detto fatto, Borsa che si rimangia le perdite patite dopo il CPI statunitense e spread che crolla dal pericoloso livello di 245 punti base a cui era arrivato da 230. E in pochi minuti. C’è un problema, però. E sta tutto in questo altro grafico: questo è il livello di liquidità relativo al mercato di quattro titoli di Stato benchmark, ovvero quelli di Usa, Regno Unito, Germania e Italia.
Come vedete, nonostante il caos in atto con i fondi pensione britannici e l’intervento emergenziale della Bank of England, i Gilts di Sua Maestà continuano a godere di una liquidità migliore di quella dei Btp. Insomma, il nostro debito, apparentemente sotto controllo grazie al reinvestimento titoli dell’Eurotower, è di fatto in traiettoria giapponese: nessuna negoziazione reale, nessun trading che non faccia riferimento all’acquirente di unica istanza. La Bce, appunto. Cosa significa, questo? Che ormai la strada è quella di un commissariamento de facto, a causa di una dipendenza da acquisti di Francoforte che da patologica è diventata esiziale. Senza Bce, è default da esclusione forzata dal mercato nell’arco di una settimana. Con un Governo che litiga prima ancora di nascere. E con la situazione macro del Paese da piena pre-recessione, incapace di poter operare anche uno scostamento minimo per tamponare il fallout del caro-bollette su imprese e famiglie.
Tutto questo accadeva in perfetta contemporanea con la prima seduta del Senato. La vita, a volte, sembra davvero un film. Ma, purtroppo per noi, in questo caso non lo è. Meglio tenere a portata di mano il casco. E allacciare preventivamente le cinture di sicurezza.
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