Che la situazione stia deteriorando rapidamente, lo conferma il fatto che Maurizio Landini sia tornato a parlare. Quando il numero uno della Cgil utilizza il palcoscenico de La Repubblica, significa che la misura è quasi colma. Basta bonus, occorre alzare i salari. Detto fatto,Bankitalia frena rispetto ai rischi insiti nella corsa fra stipendi e inflazione. Il solito copione. Peccato che a ottobre in Italia i prezzi abbiano messo il turbo, salendo dall’8,9% all’11,8%. Un 3% su base mensile che significa la devastazione del potere d’acquisto già magro delle buste paga italiane. Ma anche qui, la sciarada è dietro l’angolo. Un triste cane che si morde la coda: appena i sindacati rivendicano stipendi in grado di tamponare quell’erosione di reddito, Confindustria ribatte con la necessità di abbattere il cuneo fiscale per le aziende. Sacrosanto ma impossibile in sede di un DEF che deve essere chiuso e pronto entro 15 giorni e, soprattutto, da confezionare in modalità nozze con i fichi secchi.



Certo, l’attenzione dei media è catturata dalla raccolta del Btp Italia, 5 miliardi nei primi due giorni che fanno ben sperare. Ma siamo sinceri, quell’emissione non si basa su un attestato di fiducia nel Paese e nel suo grado di resilienza economica. Bensì è poco più che una puntata al Superenalotto: si spera, tafazzianamente, che l’inflazione scenda talmente lentamente da garantire una succulenta cedola, stante appunto il carattere di legame diretto alle dinamiche dei prezzi di quel bond. Un grande Paese non ragiona così, siamo sinceri. In Germania, l’IG Metall è ai ferri corti con gli imprenditori, perché per i 3,9 milioni di lavoratori interessati dal rinnovo contrattuale chiede aumenti del 4,5-5% e, soprattutto, il passaggio dell’assegno familiare da 300 a 750 euro per lavoratore all’anno. Questo grafico descrive meglio di mille parole il livello di aumento contrattuale di cui si sta discutendo, correlandolo all’andamento dell’inflazione.



Certo, il mondo del lavoro e sindacale tedesco ha ben poco in comune con quello italiano. Ma una cosa è uguale per tutti in Europa, ovvero questa: il delta di maggior impatto dell’aumento dei prezzi fra cittadini più e meno abbienti. Un bel 2% netto.

Qualcosa occorre fare. Piaccia o meno. Perché se le aziende hanno tutto il sacrosanto diritto di chiedere meno tasse, possibilità di ottenere sgravi per il reinvestimento e la formazione/ricerca o soprattutto abbassamento strutturale del cuneo fiscale per rendere più rotonde le buste paga, occorre anche essere molto pragmatici. E ricordare loro che i dipendenti non possono giocare la carta del commercialista: le tasse le pagano in busta, trattenuta alla fonte. Tutte. Non possono giocare l’Iva. E devono vivere, alla luce di salari che in Italia sono da fame. Basta prendere la media europea tracciata da Eurostat e, state certi, il motivo di tante fughe all’estero diviene immediatamente palese. Perché il lavoro si paga. E, soprattutto, Costituzione alla mano, la retribuzione deve garantire una vita dignitosa. Con gli stipendi attuali di un metalmeccanico, la dignità rappresenta un plus inavvicinabile. E questo già a regime di inflazione pressoché agonizzante come abbiamo registrato per almeno un decennio, quello del Qe perenne post-crisi del debito sovrano. Quando si stampava come pazzi per stimolarla l’inflazione, temendo la trappola giapponese della deflazione. Poi, di colpo, quella massa monetaria che aveva fatto la gioia della Borsa – quindi di molti imprenditori e non certo di molti operai – è esondata dagli indici azionari e ha invaso l’economia reale, tramutandola in una risaia di costi impazziti. Ma era solo transitoria, era solo speculazione.



E adesso? Adesso l’Italia si ritrova con un’inflazione da anni dell’austerity vera. Doppia cifra molto rotonda, quasi il 12% su base annua. E il 3% su base mensile. E mentre in Germania si parla di aumenti salariali del 4,5-5%, qui nemmeno se ne parla. Anzi, Bankitalia sconsiglia la rincorsa fra stipendi e prezzi. D’altronde, gli stipendi che circolano a palazzo Koch permettono questo tipo di pragmatismo.

Signori, guardate questo grafico: ci mostra la scomposizione dell’inflazione di Usa e Ue per fattori. Come potete notare, una differenza balza subito all’occhio ed è quella rappresentata dall’area in blu scuro.

La componente della domanda negli Stati Uniti è più del doppio rispetto a quella europea. Cosa sta facendo quindi, la Bce con la sua folle rincorsa alla politica della Fed? Spera di contrastare un’inflazione quasi totalmente energetica, distruggendo quel poco di domanda esistente attraverso rialzi dei tassi acritici e con velocità che l’economia reale non può reggere. Né i salari, né i mutui bancari. E lo stiamo già vedendo. Il rischio, pressoché certo? Un’altra fotocopia dell’America ma questa volta relativa ai licenziamenti di massa già in atto Oltreoceano. E lo mostra questo grafico: mantenendo il target del 2% come riferimento e operando unicamente sulla leva dei tassi, per tornare a quel livello gli stessi Stati Uniti rischiano di dover accettare un tasso di disoccupazione al 6,5% fino a fine 2024. Oggi è al 3,7%.

Insomma, gli errori delle Banche centrali e il Qe perenne che fa felici le Borse, i dividendi e i bonus, li pagano i lavoratori. Non a caso, sia Fabio Panetta che Vincenzo Visco nelle ultime ore hanno rilasciato dichiarazioni e interviste in cui sentenziavano come la possibilità di aumenti dei tassi meno aggressivi stesse prendendo piede in seno al Consiglio. Peccato poi sia arrivato il dato di ottobre dell’inflazione in Italia. E, soprattutto, la dimostrazione pratica e immediata di cosa significherà aver perso un alleato come la Francia nei consessi europei. Se infatti l’ultra-falco governatore della Banca centrale estone, Madis Muller, ha invece confermato in un’intervista a Bloomberg come al board di dicembre il costo del denaro dovrà essere alzato in maniera aggressiva, ecco che a scompaginare del tutto gli equilibri e schierarsi con il fronte del rigore ci ha pensato il governatore della Banque de France, Francois Villeroy de Galhau, a detta del quale il trend deve rimanere quello di un contrasto deciso all’inflazione, aprendo la porta a un possibile rilassamento dei termini di rialzo solo nel 2023.

Cosa sarà dell’economia italiana e del potere d’acquisto dei salari, però? In quali condizioni arriverà il nostro Paese alla prossima primavera? A pezzi. Se dovrà essere grande reverse, se dovrà essere taglio emergenziale dei tassi per contrastare la recessione europea, dopo il trimestre aggressivo attuale della Bce, servirà un agnello sacrificale. Indovinate chi sarà? Spiace dirlo, ma, come al solito, la Cgil si è svegliata con i buoi abbondantemente scappati dal recinto. Non stupisce che stia in piedi ormai solo grazie agli iscritti allo Spi, il sindacato pensionati con le loro rivalutazioni garantite. Chi lavora è solo in questo Paese. E infatti, se è giovane se ne va. E fa benissimo.

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